Osho, le fake news e Wild Wild Country
Intervista a Majid Valcarenghi a cura di Archan Paola Migliori
Dal 16 marzo 2018 è disponibile su Netflix la docuserie in 6 puntate “Wild wild country”.
Questo prodotto televisivo documenta gli eventi accaduti negli Stati Uniti durante gli anni ’80, quando il Maestro spirituale Osho e la comunità che lo accompagnava fondarono nello stato dell’Oregon la città di Rajneeshpuram. La vicenda, che oramai è diventata parte della storia degli USA, nel docufilm viene raccontata intervistando diversi protagonisti dei fatti.
Da una parte Sheela e Shanti Bhadra, le due donne che hanno scontato diversi anni di carcere per le violenze commesse, all’insaputa della stragrande maggioranza della comunità, mentre gestivano la città di Rajneeshpuram. Dall’altra i cittadini di Antelope, piccolo centro abitato vicino alla nuova città, contrari all’invasione dei “rossi”, così chiamati per i colori degli abiti. Non si può tacere, inoltre, l’apporto decisivo nel film dell’avvocato di Osho, Niren, per il suo preciso rendiconto dei fatti avvenuti.
Ho chiesto di parlarne a Majid Andrea Valcarenghi, che ha incontrato Osho nel 1977, e che ha vissuto direttamente le vicende di cui parla Wild Wild Country.
Inoltre, nel suo libro Operazione Socrate, Majid Andrea Valcarenghi ha raccontato come e perché Osho è stato avvelenato dal governo di Ronald Reagan durante il suo soggiorno americano.
Caro Majid, sappiamo che sei andato in India per la prima volta nel 1977. Come hai incontrato il Maestro spirituale Osho?
E’ stata l’ultima tappa di un viaggio nel sud dell’India. Inconsciamente mi ero riservato l’Ashram di Poona come fine del viaggio perché probabilmente sapevo che sarebbe stata quella più importante. Avevo “conosciuto” Osho prima attraverso la lettura de La rivoluzione interiore, attraverso i suoi occhi visti in fotografia, attraverso la mia compagna dell’epoca, Yatra, che provocò il mio viaggio in India. Arrivato nell’Ashram fui affascinato dai suoi discorsi mattutini e dalla sua presenza, dallo stato della sua presenza. Poi decisivo, l’incontro personale, le parole che mi disse, l’energia che mi trasmise.
Dal 1981 al 1985 Osho ha lasciato Pune, in India, e si è trasferito negli Stati Uniti, in Oregon. Il sogno era quello di creare una città ideale. Il docufilm Wild wild country trasmesso in questo periodo da Netflix racconta gli anni di questa attività, la costruzione di Rajneeshpuram, con la guida organizzativa di Ma Anand Sheela. Hai visto la serie di sei documentari di Netflix? Cosa ne pensi?
Si certo, l’ho guardato due volte per coglierne al meglio ogni aspetto.
L’ho trovato nell’insieme molto interessante anche se con alcune lacune e manipolazioni significative che non aiutano comprendere quell’esperienza. Due sono le più importanti. La prima è che il docufilm fa credere che Osho, dopo il periodo di tre anni e mezzo di silenzio, riprenda a parlare solo quando Sheela fugge dalla Comune.
In realtà Osho non riprese a parlare quel giorno,ma ben nove mesi e mezzo prima del giorno della fuga di Sheela! Nove mesi e mezzo in cui anche nei discorsi pubblici cercò di far vedere a Sheela quanto avesse sbagliato, quanto si fosse lasciata prendere dal potere, dall’immagine di papessa della “religione rajneeshi” che si era creata. Dette cioè a Sheela una possibilità. Ma ormai lei si era troppo identificata nel ruolo di papessa che si era data, quasi fosse una seconda guida spirituale più che la sua segretaria. Emblematica la sua frase “Lui era il sole ed io la luna”.
Inoltre il docufilm trasmette un solo minuto in cui Osho si manifesta durissimo nei suoi confronti, mentre il discorso, di oltre un’ora, aveva toni ben diversi. Estrapolando solo questo passaggio,Osho appare carico di un risentimento non reale.
La seconda lacuna importante è stata in riferimento alla sua morte.
Il docufilm riporta solo un pettegolezzo su una presunta morte per overdose di un giornale locale omettendo invece la denuncia che Osho fece pubblicamente in un memorabile discorso in cui disse di essere stato avvelenato durante i dodici giorni in cui inspiegabilmente fu trasferito di prigione in prigione. Gli esami fatti fare dal suo medico Amrito a Londra e in India su capelli e peli della barba, tutta la sintomatologia che registrava una progressiva perdita delle difese immunitarie. E infine gli esami per l’HIV che in base a tutto ciò poteva essere l’unica altra alternativa all’avvelenamento da metalli pesanti, come il tallium. E gli esami HIV ripetuti due volte in una struttura pubblica furono ovviamente negativi. Tutto questo manca.
Il documentario ha creato un movimento di opinione, suscitando la necessità da parte di diversi giornalisti di scrivere articoli. Mi è capitato di leggere qualcosa, e ho notato una serie di inesattezze. Per esempio, ci sono differenze fra il movimento dei sannyasin di Osho e il movimento degli Hare Krishna?
Una serie di inesattezze lunga un chilometro. Si sono cimentati a commentare giornalisti che non conoscevano nulla della vicenda e peggio, non si sono voluti documentare, come purtroppo è costume diffuso per quello che viene ritenuto giornalismo “di colore”. Il caso già eclatante credo sia stato quello del “Fatto Quotidiano” dove il giornalista Cohen crede di occultare la sua mancanza di conoscenza di quello che scrive rifacendosi alla sua esperienza personale. Così si cita negli anni ’80 in cui dice di aver conosciuto gli arancioni attraverso il suo amico Giorgio Cerquetti che lo tampinava quotidianamente per convertirlo. Peccato che in tutti quegli anni non fece in tempo ad accorgersi che la persona in questione, non era un sannyasin di Osho ma un Hare Krishna.
Nel merito alle differenze tra sannyasin di Osho e Hare Krishna rispondendo al di là delle battute direi che gli Hare Krishna si rifanno rigorosamente alla tradizione indù di cui sono gelosi custodi mentre Osho ha dissacrato ogni tradizione religiosa e dagli indù fu sempre violentemente attaccato.
Qual è la tua esperienza del periodo successivo alla partenza di Osho da Rajneeshpuram?
Quando Osho lasciò l’America tentò invano di trovare asilo in Paesi di mezzo mondo. I servizi segreti americani e la diplomazia ai massimi livelli aveva creato una fortissima cortina fumogena denigratoria della figura di Osho dipingendolo come terrorista, pedofilo, spacciatore di droga, stupratore. In alcuni Paesi non gli fu concesso neppure l’atterraggio. L’unico Paese che lo avrebbe accolto sarebbe stato l’Uruguay con l’allora Presidente Sanguineti che dovette rinunciare perché gli Stati Uniti minacciarono di revocare il prestito di 6 milioni di dollari che avrebbero messo in ginocchio il suo Paese. In Italia accadde qualcosa di interessante e che mi permise di avere una conoscenza diretta della violenza dell’offensiva diplomatica americana contro Osho. Quando chiedemmo un visto ordinario ci fu risposto che al massimo poteva essere concesso un visto di sei giorni che fu rifiutato da Osho.
Al che mi rivolsi a Marco Pannella e al Partito radicale segnalando questa violazione dei Diritti e chiedendo sostegno e così iniziammo una campagna d’informazione rivolta all’opinione pubblica, al mondo della cultura e dell’arte e della politica, perché l’allora Ministro degli Interni Oscar Luigi Scalfaro concedesse un normale visto d’ingresso a Osho.
Una campagna che vide l’adesione ad un appello di decine di personalità da Fellini a Gaber, da parlamentari come Luigi Manconi a Giovanna Melandri, a giornalisti come Gabriele La Porta e Gianni Bucci. Tutta questa storia poi la pubblicai nel libro Operazione Socrate, ristampato più volte nel corso degli anni. Dopo alcune settimane, vista la nostra perseveranza il Ministro degli Interni convocò l’allora Segretario radicale Sergio Stanzani e cercò di convincerlo a rinunciare alla richiesta di visto alla luce della documentazione che poteva fargli vedere. Ed è così che venimmo a sapere cosa gli americani avevano inoltrato ai governi di tutto il mondo per screditare e boicottare Osho. Salvo che nel nostro caso ottenne l’effetto contrario. Sergio Stanzani che fino allora era rimasto il più tiepido e dubbioso su questa iniziativa trainata principalmente da Pannella e Rutelli di fronte alla incredibile sequenza di accuse che mettevano insieme tutti i reati possibili, Stanzani si convinse che davvero c’era in atto una vera e propria persecuzione da parte degli Stati Uniti. E a questo punto iniziai uno sciopero della fame ad oltranza diretto a Scalfaro perché concedesse il visto o rendesse pubbliche le motivazioni del rifiuto. Dopo ventuno giorni Il Ministro chiamò Stanzani e disse “ va bene, fatelo smettere, richiedete il visto” Ma ormai il corpo di Osho minato dall’avvelenamento non era più in condizioni di viaggiare e il visto non fu più richiesto.
Dalla docuserie di Netflix Wild wild country sono sorte molte discussioni, molte notizie discordanti.
Subhuti Anand, un giornalista che ha vissuto a Rajneeshpuram, fa un’analisi interessante.
https://www.oshoba.it/index.php?id=articoli_sito_x&xid=1071
Com’è successo altre volte, in America, poteva essere un massacro. Che ne pensi?
Sì, interessante questo articolo perché mette in risalto un ulteriore dettaglio importante che riguarda l’accanimento e la manipolazione della Procura generale dell’Oregon. Nel docufilm viene dichiarato dal procuratore Turner che Osho fugge in aereo da Rajneeshpuram per sottrarsi al possibile arresto. Invece esiste un piano di volo regolarmente trasmesso in cui si descrive l’esatto tragitto che avrebbe compiuto l’aereo. Ed in base a questo piano infatti viene attuato il teatrino dell’arresto all’atterraggio. Subhuti non solo evidenzia nell’articolo che non si trattava di fuga, vista la comunicazione preventiva fatta alle autorità, ma sottolinea come la scelta di Osho di lasciare la Comune fosse finalizzata a preservare Rajneeshpuram da un possibile attacco militare che poteva finire in un bagno di sangue. Il sospetto infatti era che le autorità puntassero ad un intervento armato. Più volte nel docufilm si fa riferimento ad esperienze di sette religiose armate che si erano ribellate o suicidate, paventando rischi simili per la Comune di Osho. La sensazione diffusa nella Comune era che preparassero il terreno a giustificare un attacco armato.
All’interno dell’articolo che ho citato prima c’è un riquadro in cui il giornalista del Fatto Quotidiano rivolge alcune domande a Federico Palmaroli, l’autore della pagina satirica Le più belle frasi di Osho.
All’ultima domanda dell’intervistatore: “Cosa rimane di Osho, oggi?” Palmaroli risponde così: a parte questa fissa per la New Age, per i suoi aforismi, rimane a mio parere una quantità di precetti astratti che mal si sposano con la concretezza della vita. […]
Posso chiederti un’opinione su questo?
Preferirei rimarcare quanto la scelta di corredare l’articolo con l’autore di un libro satirico di dubbio gusto, invece di rivolgersi, non dico a chi abbia vissuto l’esperienza con Osho, ma neppure con uno dei tanti uomini e donne di cultura che hanno scritto e commentato le centinaia di opere di Osho pubblicate in Italia. Una scelta editoriale e giornalistica, questa del box, che ben rispecchia la superficialità del taglio dell’articolo.
Ringrazio di cuore Majid Andrea Valcarenghi per la sua disponibilità, augurandogli di continuare il suo proficuo cammino nel mondo, ma senza essere del mondo.