Intorno all’antispecismo
Intervista di Antonio Priolo a Marco Verdone. Foto di Rachele Z. Cecchini
Gorgona è un’isola dell’Arcipelago toscano, colonia penale dal 1869, carcere due volte, in quanto circondata dal mare e dalle limitazioni strutturali della detenzione. Carcere anche per gli animali che vi hanno vissuto, in quanto animali da “reddito”, per definizione destinati ad una pena infausta. A Gorgona nasce e si sviluppa un esperimento eccezionale dal punto di vista dell’approccio nonviolento, antispecista, compassionevole, alle dinamiche della relazione umano – non umano, al carcere e alla pena per i detenuti e per gli animali.
Protagonista di questa esperienza è Marco Verdone, medico veterinario omeopata ed antispecista che dall’utopia del progetto Gorgona ha realizzato un sistema sociale alternativo dove l’uomo non ha più la necessità di uccidere i suoi compagni di viaggio. Verdone questa esperienza ha provato a condividerla, attraverso la pubblicazione di diversi libri (“Il respiro di ”Gorgona, “Ogni specie di libertà”, “L’isola delle bestie”) e con la promozione di un movimento (una comunità in movimento) denominato Ondamica.
1. Un medico veterinario e l’elaborazione della filosofia antispecista in applicazione pratica. Come si è sviluppato questo processo dal punto di vista personale e professionale?
Il medico veterinario per formazione accademica è “allevato” a relazionarsi e pensare i cosiddetti animali domestici come suoi pazienti da curare o come (s)oggetti da sfruttare. I due aspetti si intrecciano e pian piano l’animale non umano domestico che entra nell’orbita del medico veterinario è ridotto a un qualcosa da inquadrare in qualche misura. Si procede per incasellamenti di specie, di razza, di attitudine, nosologici, di utilizzo, di destino. Nonostante anche la medicina veterinaria, come tutte le discipline umane, si lasci contaminare da altre forme di pensiero, rimane una netta separazione tra noi-umani e loro-animali. Il meccanicismo e il riduzionismo si sposano con un’idea di sfruttamento zootecnico, che alla fine, rende molto difficile liberarsi da sovrastrutture mentali che accentuano antropocentrismo e specismi.
Personalmente ho avuto la fortuna di essermi interessato ad altro. Come racconto ne L’isola delle bestie “credetti che la Facoltà di Medicina Veterinaria mi potesse avvicinare allo studio del comportamento animale e, più in generale, all’essenza animale. Per me non fu così e me ne accorsi quasi subito, tanto che proseguii nel coltivare i miei interessi personali indipendentemente dai programmi universitari da cui decisi di liberarmi nel più breve tempo possibile e dedicarmi finalmente ad altro. Gli studi accademici mi allontanavano dalla vita, dalla vera fisiologia che è discorso, logos, sulla natura, physis. Cercavo di conoscere i processi, desideravo leggi universali, aspiravo ad accedere al mondo delle cause e a una dimensione energetica e spirituale. Volevo sapere cosa fosse racchiuso nello stesso etimo della parola ‘animale’, alla quale, in nessun corso, era mai stato fatto cenno. Volevo capire dov’era, se c’era, l’anima animale e tutto quello che vi ruotava attorno. Ero alla ricerca degli ‘incontri con l’altamente significativo’ per usare un’espressione del filosofo del diritto Luigi Lombardi Vallauri.
Le materie di studio, invece, mi offrivano solo schemi meccanicistici (l’animale macchina), riduzionisti (le cause delle malattie ridotte a un certo numero di microrganismi e le terapie ridotte a poche classi di farmaci) e cose morte (animali da trasformare in cibo e organi da sezionare). Gran parte delle relazioni con gli animali erano finalizzate agli interessi economici degli umani e quindi buona parte della formazione era rivolta agli animali cosiddetti ‘da reddito’, allevati e sfruttati seguendo precise indicazioni tecniche (zootecnia). C’era anche un esame dal lugubre titolo ‘Lavori pratici nei macelli’, per il quale bisognava frequentare uno di questi luoghi. Non andai mai a fare pratica, non so come riuscii a superare l’esame e da allora l’ho completamente rimosso dai miei ricordi. Tutto era privo di vitalità e solo in seguito, grazie alla medicina omeopatica, ho scoperto la presenza e la fisiologia della forza o energia vitale che, per la sua natura immateriale, non rientrava negli interessi della scienza quantitativa con la quale si veniva indottrinati.”
Nel mio percorso personale e professionale (inscindibili), l’incontro con la medicina omeopatica hanemanniana e il lavoro in un luogo di detenzione come la Casa di Reclusione dell’isola di Gorgona, sono stati fondamentali per poter maturare un’altra visione della vita e della relazione con quegli esseri che semplicisticamente chiamiamo animali. La medicina omeopatica mi ha fornito strumenti teorici e pratici per leggere ed affrontare le malattie dei miei pazienti non umani alla luce della rete di interconnessioni con il resto che vive e che sta attorno. Nulla è indipendente e niente è ciò che appare. La dimensione energetica (immateriale) è diventata parte integrante del mio piano di lettura dei fenomeni della salute e malattia, a loro volta espressioni dinamiche del più grande palcoscenico della vita. Nel mio quotidiano è entrata quella dimensione che chiamiamo Forza o Energia Vitale e che condividiamo con ogni forma vivente. Non esistono gerarchie, antropocentricamente intese, ma solo infinite forme di vita. Ognuna diversa dalle altre e ognuna con pari diritti a sperimentare il viaggio, per molti versi misterioso, della vita.
Tutto ciò è stato passato, inoltre, al vaglio dell’esperienza di operatore in un carcere speciale (per il livello di libertà concesso alla persone recluse) come la straordinaria isola di Gorgona e con i suoi abitanti umani (liberi e reclusi) e non umani. In particolare è avvenuta una metamorfosi nella relazione proprio con quegli animali cosiddetti da reddito il cui destino nasce segnato con la fine per morte violenta attraverso la macellazione. Conoscendo “di persona” questi esseri senzienti e avendo partecipato a molte vicende della loro vita, comprese le relazioni di amicizia e affetto con i loro custodi detenuti, sono accadute molte cose che mi hanno portato a fare scelte precise e a raccontare, in parte, il mio percorso e le storie di cui sono stato testimone.
Il tempo è passato velocemente e le evidenze si facevano sempre più stringenti. La coscienza scalpitava e inevitabilmente si avvicinava uno dei bivi della vita nel quale ci viene chiesto da che parte stare.
Ho scelto di abbandonare quell’idea della tecnica applicata all’allevamento e iniziare a capire come mettere in discussione le radici del nostro sfruttamento nei confronti degli altri animali. Per prima cosa ho deciso di non nutrirmi più di animali e derivati. Di non sostenere quell’industria, piccola o grande che fosse, convenzionale o biologica, nella quale sono coinvolti i nostri pazienti. Un gesto semplice, una non-azione potente. Ancora una volta è la sottrazione, la diluizione che fa emergere nuovi piani di realtà. Da qui sono poi accadute molte altre cose tutte indirizzate a promuovere salute, benessere e conoscenza nel senso più ampio, libero e interspecifico possibile.
2. Marco Verdone e il carcere. L’incontro con l’istituzione carceraria e con i detenuti. Come questo ti ha cambiato?
Ho dedicato quasi 25 anni della mia vita personale e professionale a interagire con un mondo di cui non sapevo inizialmente niente e con il quale mai avrei immaginato di dovermi interfacciare. Ma alla fine, come credo tutti, impariamo che la vita ti porta dove devi stare e che quindi ogni previsione è aleatoria. Certamente questo è vero nella relazione con il complesso, spesso schizofrenico e imprevedibile, universo penitenziario. Un apparato intorno al quale da sempre gli esperti e gli operatori si interrogano mettendone in discussione le stesse fondamenta e scontrandosi nella ricerca di soluzioni che a tutt’oggi non sono ancora state raggiunte. Da giovane laureato in medicina veterinaria (al quale spesso si chiede di sapere tutto su ogni specie animale) mi sono trovato quasi catapultato su questa piccola isola (2,2 kmq) dove i mondi dei reclusi umani e non umani si sono intrecciati in modo talmente originale che negli anni ho intuito come questa esperienza non potesse rimanere fine a se stessa e cristallizzata nei limitati confini di un’isola. Gli anni sono passati veloci e il vissuto delle fortunate persone recluse che si alternavano in questo carcere andava a unirsi a quello delle centinaia di vite animali che vedevo scorrere sotto i miei occhi.
Occhi di una persona che non riusciva più (o forse non l’aveva mai fatto) a vedere queste creature come asettici e impersonali numeri o (e quindi) bestie da macello. Il luogo non era, e non deve tutt’ora essere, funzionale a produrre cibo di origine animale. Aveva dei conti economici intrinsecamente sfavorevoli e manifestava a me, come a tanti altri operatori, delle profonde contraddizioni, unite alla percezione di crescenti potenzialità etiche e rieducative. Ho conosciuto la sofferenza degli umani reclusi e quella dei non umani allevati. Sono stato vicino a storie difficili e a persone che avevano commesso crimini anche di una certa gravità. Ciò non era qualcosa di separato dal mio lavoro di medico veterinario. In un approccio alla salute sistemico e interdipendente ho smesso presto di pensarci come mondi separati. Il flusso della vita ci unisce oltre ogni condizione giuridica, mentale, emotiva, di specie. Ho imparato che la salute non è assenza di segni di malattia ma, come ripetiamo citando spesso il dettato dell’OMS, è piena realizzazione della nostra condizione psico-fisica e sociale.
La salute è uno stato dinamico che non possiamo cogliere nella sua pienezza se non alla luce di un percorso individuale e collettivo immerso nella dimensione dello spazio-tempo. Ed è quando sentiamo di star realizzando noi stessi che ci avviciniamo a questa condizione di equilibrio – definita salute – tra il nostro mondo interno e quello esterno. E quindi, proprio nel luogo deputato alla profonda sofferenza (luoghi di pena, colonie penali) che mi sono posto alcune domande fondamentali: perché non desiderare una forma di salute anche per loro, per quegli altri con il numero all’orecchio. Perché non aiutare anche loro a realizzare la “loro” vita? Quale meccanismo umano ci impedisce di consentire la loro piena realizzazione e di vivere una vita piena, degna di essere vissuta, senza sofferenze e violenze? Perché non cambiare sguardo? Perché non riusciamo a cambiare sguardo? Lascio qui queste domande aperte
Come il padre della medicina omeopatica, Samuel Hahnemann, provò a ribaltare i presupposti granitici della scienza del suo tempo e sperimentò la diluizione delle sostanze oltre le soglie del costrutto dominante dose-azione, così ho cercato di fare su quest’isola partendo proprio dal superamento dello status detentivo. E se non li mangiassi più? E se li considerassi come miei simili-diversi? Cosa ci separa in modo talmente irrimediabile? Perché non immaginarli come il mio prossimo? Già, chi è il mio prossimo? Quando affermiamo “ama il tuo prossimo” a chi ci riferiamo e fin dove, nella scala del vivente, ci spingiamo?
3. I detenuti e gli animali non umani, simbolicamente i reietti della società che entrano in relazione. In che modo sei stato l’artefice di questa alchimia?
Lo scopo del carcere è molto chiaro: almeno leggendo l’articolo 27 della nostra Costituzione.
Grazie anche al confronto con le tante persone incontrate sull’isola e “attorno” ad essa, abbiamo compreso come la vera missione non fosse produrre beni materiali (prodotti derivati dagli animali) ma persone migliori. Ricorderò sempre uno dei diversi Direttori che si alternò sull’isola dire durante una riunione: “lo scopo di Gorgona non è produrre provole
ma persone rieducate”. Evidentemente colse le problematicità della filiera animale, resa ancora più complessa in questo luogo anche a causa di dinamiche relazionali difficili da spiegare. Sono venuto a contatto con categorie del vivente che sembravano inizialmente separate e senza possibilità di comunicazione. Conoscevo quelli allevati ma non i reclusi umani. È stato un percorso direi quasi “auto-formativo” perché nessuno mi aveva preparato a lavorare in un carcere come quello.
Ho avuto però il vantaggio di non svolgere un ruolo giudicante. Io mi occupavo degli animali presenti e non dovevo esprimere giudizi sulle persone detenute. Questo mi ha consentito di stabilire relazioni più libere, nonostante i limiti intrinseci alla struttura. Ho conosciuto persone e storie. Ho toccato con mano la povertà umana di una parte della nostra società che spesso non riesce a prendersi cura in modo adeguato di una parte del suo corpo collettivo. Nel luogo che incarna la massima espressione di un percorso giudiziario (il carcere ne è il capolinea), con il tempo, ho pian piano sospeso il giudizio. Dal mio parziale, e certamente non competente osservatorio, ho realizzato la profonda difficoltà a giudicare queste persone. Inevitabilmente ci si confronta con l’idea, tutta umana, del giudizio, della condanna, della pena, del carcere, del post-carcere. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” recita il noto art. 27 della Costituzione, riferendosi non necessariamente alla pena detentiva. Ma nel carcere la cose stanno in modo diverso e bisogna che ci siano le condizioni strutturali, mentali, emozionali e spirituali minime per realizzare quanto espresso in Costituzione. Com’è possibile, per esempio, ottenere una duratura rieducazione se si vive in celle sovraffollate, con poca libertà fisica e mentale per tenersi occupati e lavorare su se stessi?
In Gorgona è stata data la possibilità di sperimentare un percorso detentivo assolutamente alternativo offrendo libertà fisica, lavoro, ambiente naturale, relazioni serene, contatti con l’esterno, e, non ultimo, la presenza di altri esseri viventi non umani (piante e animali). Potrebbe sembrare scontato per chi vive libero all’esterno godere di sole, vegetazione, occupazione, scambi interpersonali, presenza di animali. Quando si vive nella privazione e nell’assenza si capisce che così non è. In particolare ci siamo interessati della relazione con gli altri animali che in questo luogo rientravano anch’essi tra coloro che non giudicano. Non solo, ma non chiedono del passato, non mentono, non fanno la spia. Esseri per i quali ci siamo impegnati a garantirgli la dignità di soggetti: individui unici portatori di aspettative simili alle nostre e ai quali si riconosceva diversità e quindi ricchezza di conoscenza per noi. Come medico, ho cercato di far incontrare questi due mondi e promuovere salute oltre la specie. Di mediare tra forme, linguaggi, aspettative diverse, tentando di superare barriere culturali, pregiudiziali, burocratiche a volte apparentemente insormontabili. Da qui nascono alcune riflessioni culminate, ad esempio, nella Carta dei diritti degli animali dell’isola di Gorgona (vedi oltre).
La cosa che mi interessava, e che avrebbe dovuto interessare tutto il sistema gestionale dell’isola, era sviluppare la consapevolezza di come questa relazione con gli animali allevati inizialmente in modo tradizionale (per quanto liberi e ben curati) fosse trasformata in un’opportunità per cambiare le relazioni tra noi e loro. In altre parole, di creare le basi per cambiare sguardo e decidere, consapevolmente, di rinunciare alla loro uccisione e ad ogni altra forma di violenza espressa verso soggetti deboli. Appartenere a una specie diversa dalla nostra pone il soggetto animale in una condizione di sottomissione nei nostri confronti che può essere superata attraverso un percorso di conoscenza, empatia e compassione. Altrimenti come si esce migliori da un carcere? Questo è quello che ho cercato di far sperimentare in prima persona, ovvero cogliere ogni evento per trasformare il piombo (problema) in oro (opportunità). Questo è lo scopo della medicina e questo è anche lo scopo del carcere (ammesso che non ci siano soluzioni alternative).
4. Questo numero di “Re Nudo” è dedicato alla Malattia e alla Cura. Tu sei uno studioso di omeopatia. Ci parli della tua esperienza di veterinaria omeopatica e della risposta organica e spirituale dei tuoi pazienti?
Deluso fondamentalmente dalla medicina ufficiale, ho incontrato piuttosto presto sul mio cammino professionale la medicina omeopatica classica. Con lei ho iniziato un viaggio nei territori della malattia, della salute, della cura e della guarigione. L’omeopatia ci offre, come altre medicine cosiddette complementari o non convenzionali, un modello di lettura di questi fenomeni che ribalta spesso radicalmente i principi di riferimento meccanicistici ai quali siamo stati educati durante il corso di studi universitario. Nel caso dell’omeopatia abbiamo, ad esempio, inserito nel nostro bagaglio dottrinario elementi prima sconosciuti: la forza o energia vitale, leggi di guarigione, dosi ultramolecolari, individualità del soggetto malato. Il medico omeopata, umano o veterinario, acquisisce strumenti culturali e pratici che vanno a integrare le sue precedenti conoscenze mediche permettendogli di affrontare i casi di malattia in modo assolutamente originale cercando di andare a risolvere le “vere cause” dei problemi che sono sempre su di un piano immateriale e quindi non valutabile con gli strumenti quantitativi convenzionali. Questa dimensione, che chiamiamo energetica (con tutti i limiti e le ambiguità che il termine veicola), ci apre a scenari altrimenti irraggiungibili e quindi a nuove e durature possibilità di cura.
Introdussi questa nuova visione della medicina sull’isola di Gorgona nel 1993 e da allora il cammino è stato complesso ma, alla fine, ha dato frutti inaspettati. Tra i tanti, quello di aver trasferito questa conoscenza ai miei colleghi medici penitenziari che addirittura hanno permesso di offrire alle persone detenute in Gorgona la possibilità di essere curate con le medicine complementari. Inoltre, sulla scorta dell’esperienza pilota di Gorgona, nel 2014 è iniziato un corso sulle medicine complementari rivolto alle figure sanitarie penitenziarie della Regione Toscana. Ma cosa ha permesso di realizzare nella pratica clinica l’approccio omeopatico? Lo abbiamo documentato in una ricerca pluridisciplinare nell’ambito di un progetto con la Regione Toscana fin dal 2005. La medicina omeopatica ha curato con successo molti casi di malattia. Ha permesso di far risparmiare all’Amministrazione Penitenziaria molte risorse economiche e ad evitare di inquinare l’ambiente (i farmaci omeopatici non lasciano residui). In una visione ecosistemica della vita, e quindi delle relazioni di salute e malattia, l’omeopatia ha favorito il coinvolgimento attivo di tutte le figure che si sono relazionate con i soggetti animali malati.
Poiché la cura è individualizzata è necessario conoscere a fondo ogni aspetto della vita dei pazienti per poter arrivare a scegliere il suo rimedio più adatto, in altre parole, il più simile. Per tale motivo la cura era stata intesa come un prendersi “tutti” cura del malato. Le persone detenute hanno appreso sul campo l’utilizzo dei rimedi omeopatici e ne hanno sperimentato l’efficacia (così come l’inefficacia) diventando partecipi del percorso curativo. La malattia dell’animale è diventata spesso l’occasione per imparare qualcosa di nuovo e riflettere sulla necessità di curare chi è in difficoltà. Che sia difficoltà fisica, psichica, spirituale o sociale. Abbiamo gradualmente spostato il focus dall’organo malato al soggetto nella sua interezza e nella complessità delle sue relazioni con il resto del vivente, umani prossimi ad essi compresi. Curare soprattutto “questi” animali, gli animali incarcerati senza colpa (come del resto tutti gli altri presenti negli allevamenti-carcere), ha assunto un valore diverso. Mi sono chiesto, coinvolgendo anche i miei collaboratori umani detenuti nella domanda che poneva la mia coscienza: dove arriva la cura? È giusto curare qualcuno e poi ucciderlo? Posso trovare alternative? Che senso ha curare in modo così sostenibile come l’omeopatia i miei pazienti e vostri amici e poi ucciderli per produrre qualcosa di cui non abbiamo necessità?
5. “Ogni specie di libertà” e la Carta dei Diritti degli animali dell’Isola di Gorgona. Di cosa si tratta?
Col passare del tempo le domande si facevano più incalzanti e urgenti. Continuavo a chiedermi cosa ci facessi in quel luogo dopo tanti anni di partecipazione ai fatti della vita in qualità di medico degli animali. Il mio sguardo era cambiato e il destino finale dei miei pazienti era parte integrante del percorso di guarigione. La vera cura riguardava l’essere umano. Il cuore e la mente di una soggetto che si illude di essere il centro del mondo e di poter esercitare il suo dominio sulle altre specie viventi. Avevo elaborato un decalogo di principi e di pratiche essenziali che riproponevo alle nuove persone detenute (i cosiddetti “nuovi giunti”) che arrivavano a lavorare con gli animali. Persone di varia nazionalità, spesso senza alcuna esperienza precedente, con sensibilità e disponibilità diverse. Così un giorno pensai di scrivere qualcosa di più completo e che riguardasse tutte le forme animali presenti sull’isola. Chiamai questo documento Carta dei diritti degli animali di Gorgona e lo feci circolare.
Poi pensai che fosse più utile arricchirlo con le riflessioni di altre ben più competenti persone che, in vario modo avevano intercettato Gorgona e che potessero offrire un quadro più completo della complessa “questione animale”. Così è nato Ogni specie di libertà, libro collettivo pubblicato, anche questo in modo non casuale, con una casa editrice impegnata in nuovi e alternativi modelli di sviluppo economico. Ci sono alcuni elementi che mi sembra interessante segnalare. La prefazione è stata scritta dal direttore di Gorgona che più a lungo ha gestito l’isola e ne ha condiviso le idee espresse nella Carta. Un capitolo è stato affidato a una persona ex detenuta dell’isola che aveva dimostrato una particolare sensibilità verso le esigenze degli animali presenti (in particolare gatti e cani). La Carta si divide in quattro parti e si sviluppa in 36 articoli. Il primo articolo – Esseri senzienti – recita: ”Gli animali non sono cose, né sono macchine. Gli animali, – almeno la maggior parte di quelli con i quali interagiamo – come gli umani, sono “esseri senzienti”.
Questa Carta riconosce loro la capacità di provare dolore e di soffrire e – di conseguenza – il diritto alla non sofferenza e alla conservazione della vita, espressa nel miglior modo possibile. Promuove inoltre l’opportunità di consentire lo sviluppo e la manifestazione delle loro capacità individuali come esseri senzienti in virtù delle caratteristiche di ogni specie d’appartenenza, indipendentemente dalle relazioni che stabiliscono con gli umani.” Per la prima volta si mettono in discussione le pratiche di sfruttamento e morte in particolare degli animali che impropriamente chiamiamo “da reddito” e che più di tutti subiscono quelle forme di sfruttamento che abbiamo sperimentato sul campo, senza intermediazioni e che, alla fine, abbiamo ritenuto non più compatibili con il dettato costituzionale dell’espiazione della pena orientata ai valori di una rieducazione nonviolenta.
6. Come si colloca Il tuo ultimo libro “L’isola delle bestie” nel percorso che hai sviluppato?
Anche in questo caso attingo dalla mia esperienza diretta e tento di restituire fatti, immagini, suggestioni, idee maturate attraverso la relazione con gli animali che ho conosciuto e gli umani che se ne sono presi cura. Una carrellata di vita vissuta, spesso registrata per mare sulla via del ritorno, che incrocia i piani adottando, come detto sopra, un approccio olistico mutuato dalla medicina omeopatica. Le varie storie coprono un periodo compreso tra il 2004 e il 2012, e assumendo registri narrativi diversi, affrontano la detenzione umana ma, soprattutto, la condizione animale che in questo luogo, così come in ogni parte del pianeta, reclama giustizia e uno sguardo nuovo. Non mi sono sottratto alle profonde e laceranti contraddizioni che la mia professione comporta quando si trova a curare un paziente animale che, arbitrariamente inserito nella cosiddetta categoria “da reddito”, quasi sempre termina la sua breve esistenza in modo oggettivamente violento tra le mura di un macello nel pieno della sua espressione di vita.
Quest’isola, e il carcere che ospita, ha permesso di vedere i fatti in modo più chiaro e di far toccare con mano aspetti cruciali della “questione animale”. Questione locale e globale, individuale e politica che in questo luogo finalizzato alla rieducazione assume connotati d’inedita rilevanza. Ho cercato di esplorare i vari segmenti della filiera animale per superare le distinzioni tra specie e sperimentare una relazione empatica e compassionevole con i non umani, esseri senzienti che, per accentuarne le diversità e le distanze da noi, riassumiamo con malcelato disprezzo nel termine “bestie”. Le finestre aperte in questo libro restituiscono solo una parte delle tante esperienze vissute durante questi lunghi anni, facendo emergere un’umanità in cerca e un’animalità non umana – le cosiddette bestie appunto – che pone domande spinose alla nostra coscienza.
È giusto che un medico contribuisca a far uccidere i suoi pazienti spesso nel loro miglior stato di salute per produrre, tra l’altro, qualcosa di non necessario? È giusto che in un carcere si riproducano modelli di violenza su esseri viventi più deboli? È giusto macellare animali che hanno svolto fino allora un così importante ruolo sotto il profilo rieducativo e terapeutico? La raccolta è preceduta dalla prefazione della professoressa Silvia Buzzelli, docente di diritto penitenziario, procedura penale europea e sovranazionale dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca che unisce le sue competenze professionali con una particolare attenzione alla questione animale.
7. Quali sono stati gli ostacoli incontrati nella convivenza tra detenuti, abitanti dell’isola, tutti portatori di una visione antropocentrica, ed animali non umani?
La comunità detentiva è quasi per definizione un gruppo dinamico, vale a dire con un certo turnover. Ciò significa che periodicamente arrivano ed escono persone e quindi le relazioni e gli equilibri vanno continuamente riformulati. In una certa misura questo vale anche per gli agenti che controllano i reclusi. Tutto è sempre molto poco stabile e quindi mai definitivo. A volte ci sono stati gruppi con i quali, dopo un certo tempo si era creato un tangibile affiatamento lavorativo ma poi, inevitabilmente, rimesso in discussione dalla scarcerazione o dal trasferimento rispettivamente di persone detenute e agenti di polizia penitenziaria.
Inutile negare che introdurre i principi di rispetto dell’alterità animale, in particolare quando di tratta di animali “non d’affezione”, mette in crisi i nostri interlocutori. Ho incontrato molti ostacoli in questo luogo perché la mancanza di libertà d’espressione unita a forme più o meno manifeste di debolezza contrattuale, non favoriscono una vera capacità di cambiamento. Per cambiare bisogna essere liberi, dentro e fuori di noi stessi. Ma ho anche sempre creduto che il buon esempio e alcune esperienze significative avrebbero lasciato il segno oltre il passaggio su quest’isola.
8. “L’esperienza di Gorgona è stata un percorso verso la consapevolezza soprattutto per i detenuti. Qualcuno di loro in questo frangente ha interrotto il consumo di carne come segno di fratellanza con gli animali non umani?”
Il metodo che ho adottato in carcere, come in altre occasioni di condivisione delle esperienze, è stato di offrire idee e testimoniare con la mia pratica diretta (quotidiana). L’approccio pedagogico, se così vogliamo chiamare questo mio tentativo di “trasmettere qualcosa a qualcuno”, è stato di evitare di fornire soluzioni pronte, frutti già masticati. L’erba e il fieno sono lì, e per restare nell’ambito analogico veterinario, ognuno li prende e se li rumina o mastica e digerisce come meglio crede. Io mi limito a indicare la strada e a far vedere quello che faccio. Sulla cima della montagna bisogna arrivarci da soli.
Diverse persone detenute hanno sperimentato “dal vivo” un altro approccio al mondo. Hanno visto che non mangiavo animali e derivati e che, tra l’altro, i panini e le altre pietanze che mi portavo da casa erano anche molto buoni! Ricordo che il 13 luglio 2014 abbiamo anche realizzato una giornata di visita sull’isola con la partecipazione di circa 200 persone e in quell’occasione è stato preparato da alcuni amici (un gruppo noto come Animali in cucina) un pasto vegano al quale hanno partecipato durante la preparazione alcune persone detenute stesse.
Si è trattato di un evento straordinario che nonostante le notevoli difficoltà di organizzazione (a partire dalle previsioni meteomarine che sembravano fino all’ultimo disastrose) ha dimostrato che si può mangiare benissimo senza uccidere nessuno e che, inoltre, l’isola ha saputo gestire in maniera serena la presenza di così tante persone esterne. Detto questo, alcune persone detenute hanno iniziato a porsi domande e a voler sperimentare altri stili alimentari. Non è facile però realizzare certe scelte in un luogo dove la libertà e le dinamiche interpersonali sono così limitate e condizionanti. Ricordo solo un episodio al quale avrei voluto dare seguito e maggiore sostegno. Un giorno una persona che lavorava con gli animali si avvicinò e mi sussurrò, cercando di non farsi sentire, che da tre mesi non mangiava più carne e che – aggiunse felice – si sentiva benissimo! Oggi, ripensare a questo, mi procura un profondo dispiacere: quello di non poter accompagnare tante altre persone come lui che avrebbero potuto e voluto sfidare i pregiudizi e fare un’esperienza nuova. Perché, alla fine, questa è la vera scommessa e finalità di un luogo che appare irriformabile come il carcere.
Marco Verdone, medico veterinario omeopata di frontiera, ha lavorato per circa 25 anni nel carcere dell’isola di Gorgona (LI).
Tra le tante attività qui ha introdotto nel 1993 la medicina omeopatica per la cura degli animali e ha contribuito a trasferirla agli umani. Ha scritto Il respiro di Gorgona – Storie di uomini, animali e omeopatia nell’ultima isola-carcere italiana (Libreria Editrice Fiorentina, 2008), Ogni specie di libertà (Altreconomia Edizioni, 2012) e L’isola delle bestie (Cafiero&Marotta editori, 2015).
Ha collaborato con il capitolo Non solo animali. Esperienze dall’isola carcere di Gorgona nel volume “I giorni scontati. Appunti sul carcere” a cura di Silvia Buzzelli (Sandro Teti Editore, 2012). Ha insegnato medicina omeopatica classica per molti anni e l’ha inserita in un progetto di cooperazione con i rifugiati del Popolo Saharawi nel deserto del Sahara Algerino.
Nel 2015 ha partecipato al TEDx Lake Como con la conferenza Peace with non human animals (video)
Attività e temi che promuove sono disponibili sul sito www.ondamica.it.