Io sono silenzio
Ho iniziato a “fare musica” da bambina. In casa immancabilmente il pianoforte, dischi e registrazioni, tutte le estati in Arena a sentire le opere, frequentazioni di teatri e sale da concerto. E si cantava. Il mio approccio con il mondo è sempre stato di tipo sonoro. Studiare al Conservatorio di Musica faceva parte del logico proseguo. I suoni esercitavano un fascino irresistibile sulle mie orecchie, assorbivano tutta la mia attenzione, creavano i contorni della mia realtà, delineavano lo spazio nel quale mi muovevo e le mie reazioni all’ambiente e alle persone.
Una voce con un timbro sgradevole, appuntito, con armonici dissonanti o troppo nasale o mellifluo immediatamente provocava un mio distacco di interesse o anche fisico da quanto mi veniva detto. Un timbro armonioso, tondo, ben equilibrato ed ecco che la mia attenzione veniva assorbita naturalmente, concentrata ed aperta all’ascolto.
L’uso della voce, anche della stessa pronuncia delle parole per me si trasformava in un disegno sonoro che poteva risultare piacevole o no indipendentemente dal contenuto. Reagivo ad una parlata con troppo indugio su lettere sibilanti o nasali, l’incedere sonoro a spirale tipico degli incantatori, l’intensità variabile all’interno di una stessa parola, il cambio timbrico troppo repentino, le parole “cadenzate”: tutto veniva inconsciamente letto in base ad un codice sonoro che tendeva a rivelarmi quella che era la vera esperienza personale dietro alla dialettica. Un po’ come per i sottomarini, che attraverso il sonar riescono a determinare lo spazio nel quale si stanno muovendo delineando i contorni del fondale marino, anch’io inconsciamente delineavo il mio spazio emozionale, fatto di alcune amicizie piuttosto di altre, di prese di posizione, di ambienti di persone e suoni che venivano accolti o rifiutati.
E la qualità della propria mente modella la qualità della propria vita. Ma c’è la possibilità di spostare l’attenzione sul Silenzio interiore, sul silenzio tra un suono e l’altro, le pause, il momento che c’è tra la fine di un suono e prima che ne sorga un altro.
Poi, l’incontro con la meditazione a 18 anni. E, quindi, con il Silenzio, quello che assorbe veramente tutti i suoni della mente i quali, in fondo, sono i più assordanti. Il mondo sonoro interiore è molto più vasto e rumoroso di quello esteriore: è un magma formato da un incessante monologo interiore, dagli echi dei ricordi sonori, parole, voci, suoni legati agli avvenimenti della propria vita. I pensieri sono vibrazioni sonore, magari non udibili dall’apparato uditivo esterno, ma chiaramente percepibili all’interno dove, come i suoni di un’orchestra prima dell’esecuzione quando ogni suonatore prova la sua parte, “scalda le mani sullo strumento” o semplicemente lo accorda, si crea una cacofonia di onde che si intrecciano, si scontrano, creano forme consonanti o dissonanti, con le conseguenti reazioni di attrazione e repulsione. E quindi, modellano la qualità della mente.
E la qualità della propria mente modella la qualità della propria vita. Ma c’è la possibilità di spostare l’attenzione sul Silenzio interiore, sul silenzio tra un suono e l’altro, le pause, il momento che c’è tra la fine di un suono e prima che ne sorga un altro. Un po’ come la tecnica yogica che porta l’attenzione sullo spazio tra un respiro e l’altro, e che tende a provocare l’espansione di quello stesso spazio e a renderlo eterno. Così anche la mia ricerca sonora ha cominciato a richiedere una esaltazione degli spazi tra i suoni. Una sorta di space clearing sonoro che trova la sua massima espressione, secondo me, nella musica indiana, dove i suoni hanno delle sottigliezze di sfumature tali da renderli a volte dei suoni-pensiero, evocati all’interno del musicista ma comunque percepibili da chi ascolta, oppure sono caricati per provocare una determinata reazione emozionale, o disinnescati e resi eterei e vuoti come la canna di un bambù, liberi di muoversi ed essere afferrati solo da coloro che hanno la capacità di percepirli.
Come il nero assorbe tutti i colori, così il silenzio assorbe tutti i suoni. Silenzio non come semplice assenza di suoni, ma silenzio come essenza dei suoni. Nella filosofia indiana si dice che l’Assoluto non può compreso per affermazione ma solo per negazione: non è questo, non è quello, neti, neti. Il silenzio è il più alto concetto dell’advaita vedanta, dello spogliare la realtà percepita di quello che non è la Realtà Ultima. In musica il silenzio è l’arresto, la negazione del suono, il bacino di energia sonora compressa e resa muta, il suono nella sua base potenziale. La pulsazione della vibrazione che entra in uno spazio dove smette di delineare il tempo. Quando con le persone lavoro con la voce o con i suoni di potere, parte del lavoro si sposta sulla percezione dell’orlo del “baratro” silenzioso ai cui bordi si tende a volersi disperatamente attaccare per non cadere nell’ignoto. Ci vuole un buon addestramento per imparare a lasciarsi andare al silenzio perché significa entrare in uno spazio dove all’improvviso diventa sonora tutta la baraonda interiore.
Qui è facile farsi prendere dal panico, continuare inconsciamente a pulsare, a mantenere almeno un’idea-suono per tenere un contatto con l’esterno e quindi non perdere il controllo. Eppure è necessariamente da qui che bisogna passare per accedere al Silenzio. Prima ci sarà il caos sonoro, poi la percezione dei suoni più sottili, poi comincerà ad emergere il semplice percepire, poi il Silenzio, nulla da percepire poiché scompare chi percepisce. Il corpo umano è dotato di mezzi potenti e straordinari per condurci lì. Siamo dei produttori di suoni e di movimenti, in pratica di forme vibratorie. E sono proprio queste che diventano delle “porte” verso la conoscenza. Ho insegnato danza per molti anni, sia indiana che nella forma di consapevolezza corporea. Ho imparato che il movimento della vera danza è il totale arresto, il luogo da dove nasce e dove muore il movimento.
Ricordo esperienze estatiche quando riuscivo a percepire il mio corpo che si muoveva da un baricentro energetico di totale immobilità. Ecco che allora che l’armonia del movimento si manifestava lasciandomi autrice e spettatrice sorpresa. Le braccia, le gambe, le mani, tutto diventava una sua estensione, l’espressione naturale della tremenda energia dell’arresto. Da qui scaturisce la gioia, l’estasi, l’appagamento. A volte vedo le immagini delle persone che danzano in discoteca o nelle feste, che lasciano il proprio corpo in balia dei ritmi incalzanti, che sfogano la propria energia nel movimento, si fermano esauste, o che ondeggiano sulla scia emotiva provocata dai suoni. E a volte viene impacchettato il tutto come danza terapia. E’ chiaro che muovendo le energie fisiche, queste provocano un movimento della serotonina e quindi una parvenza di gioia. Ma è solo l’ombra della gioia che può arrivare dal movimento consapevole, quello che parte dall’equilibrio di un baricentro stabile e silenzioso e che porta sull’orlo del famoso baratro dal quale spiccare il balzo verso l’estasi dell’Infinito. Basta così poco, così poco…
LIVIA MARIN
3 Gennaio 2013 @ 08:36
MOLTO BELLO L’ARTICOLO, MA SOPRATTUTTO CREDIBILE QUANDO SI ASCOLTA L’AUTRICE. GRAZIE PATTY!