Il lato oscuro del bene
Riportiamo qui un bellissimo contributo di Ma Anand Ida tratto da Operazione Socrate
All’improvviso, un autunno, Osho aveva ripreso a parlare. Per un’infinità di serate continuò a parlare di cristianesimo, di Cristo e delle religioni. Una demolizione sistematica, ironica e guaritrice dei mostri che la religione aveva seminato dentro di me. E insieme a questo un invito sempre più forte, sempre più amoroso, sempre più possibile verso la libertà. Come sempre nelle sue parole ognuno di noi poteva cogliere ciò di cui in quel momento aveva bisogno. Per me questo invito alla libertà dai condizionamenti e dai giudizi degli altri cominciò, fra l’altro, a coincidere con un desiderio di partire. E partii, ancora una volta per andare a Milano.
Tornando al ranch sapevo che stavo per congedarmi. Ma Osho parlava tutte le mattine in Buddha Hall e non era semplice rinunciare alle sue parole e alla sua presenza. La scissione che sentivo non era solo la scissione fra il dentro e il fuori. Era ormai in corso un processo (e non sapevo nemmeno quando fosse cominciato) per cui entravo sempre più in contatto con la mia parte negativa.
Ho sempre avuto una passione per l’introspezione e le scienze umane, conoscevo molti dei miei meccanismi psicologici eppure, ancora, riuscivo a credere di essere “buona”, “gentile”, “premurosa”. Se vedevo la rabbia, la paura, il dolore, c’era sempre un sottile giudizio interiore che ne aspettava lo sciogliersi, la fine. Decisamente avevo imparato che solo il buono, il solare, il bello avevano diritto di esistere, ed ora si stava facendo strada dentro di me l’esperienza, l’assoluta certezza che il cattivo, l’oscuro, il brutto erano altrettanto esistenti e reali.
Solo più forti perché sempre negati. Quando i mostri cominciarono ad emergere dentro di me avevano la potenza dell’acqua che straripa dagli argini indeboliti e frananti.
Avevo scelto di vivere l’Utopia, avevo trovato una quantità di fratelli che la condividevano, mi ero abbandonata alla guida di un Maestro: se questa era l’utopia allora tutto doveva essere bello, quel senso di libertà dai miei limiti avrebbe dovuto dilatarsi fino a farmi svaporare nel tutto.
E invece no, la realtà era che la fatica fisica a volte arrivava fino alla spossatezza, al dolore; man mano che l’insediamento prendeva corpo le “mamme” (così venivano chiamate le responsabili dei vari settori) si rivelavano sempre più esigenti e autoritarie. Non c’era un giorno di vacanza tutto l’anno, non si poteva partecipare alle meditazioni perché “la nostra meditazione era il lavoro”.
Le tante ore di lavoro eccitanti all’inizio come una attività febbrile per portare a termine qualcosa che appassiona, erano ormai fine a se stesse. Conoscevo qualcosa della scuola di Gurdjieff, basata proprio sul superamento della propria identità tramite il lavoro fine a se stesso, ma ora sperimentavo nella vita quotidiana quanto fosse potente e difficile questo percorso. Sentivo anche una contraddizione nascosta: se l’accento del messaggio di Osho era la celebrazione, l’integrazione di Zorba e del Buddha, perché io e molti amici eravamo confusamente depressi e scontenti, perché avevamo la sensazione di aver perso la nostra libertà? Volevamo veramente quella vita che avevamo creato? Era indubbio che noi avevamo scelto quella vita, era indubbio che noi avevamo creato quel luogo, ma allora cosa non funzionava? Osho, nei terribili discorsi dopo la partenza di Sheela, ci disse che avevamo ricreato i campi di concentramento. Ma come era stato possibile che l’Utopia si fosse trasformata nel suo opposto? E, ancora più sconcertante, come era possibile che l’utopia convivesse col suo opposto? Di tutti i passaggi difficili che ho attraversato nella vita questo è stato quello in cui ho sentito più indispensabile la presenza del Maestro.
Per riuscire a riconoscere dentro di me la coesistenza degli opposti e vederli, ingigantiti, fastidiosi, apparentemente inaccettabili, nella realtà fuori di me. Quella realtà che sapevo essere la proiezione dell’inconscio collettivo mio e dei miei amici. Non è difficile riconoscere un errore o abiurare il passato: lo abbiamo visto fare tante volte nel corso della storia, anche recente; è come se l’Io dicesse “Non avevo capito, credevo di aver scelto il giusto, ma ora so che non era il giusto e quindi lo scarto. Ora che so, scelgo il giusto.” L’Io resta integro, padrone.
Ma accettare che giusto e sbagliato possano coesistere significa annientare l’Io che perde la sua grande prerogativa, la presunzione della scelta. Significa accettare che tutto ciò che non mi piace fa comunque parte di me perché io faccio parte del tutto. E’ facile e gratificante riconoscere che sono fatta della stessa essenza dei fiori e delle stelle, ma cosa succede quando vedo che anche il prevaricatore, il distruttore sono dentro di me? Solo con una grande pietà, con una grande umiltà e un grande coraggio posso affacciarmi sull’orlo dell’abisso. Solo sostenuta da un’aura di accettazione e di amore senza limite posso rilassarmi nella molteplicità dell’essere umano. L’entusiasmo per la novità, il coraggio della scelta, la passione per la verità, tutte queste belle emozioni che sono la base di ogni idealismo, si erano sgretolate al contatto con la realtà, ma che fortuna aver sperimentato tutto questo quasi per gioco.
Era un campo di concentramento, per certi versi? Ma nello stesso tempo era il luogo dell’amore e della cura e poi … i cancelli erano aperti. Partii dal ranch il 10 settembre dell’85.
Dopo pochi giorni, mentre ero a New Orleans in casa di un amico, venni a sapere che Sheela era scappata con una decina di fedelissimi, e si diceva che avesse compiuto negli ultimi mesi ogni genere di efferatezze. Quella notte la sognai e nel sogno io ero Sheela, l’assassina.
Seguirono per il ranch dei mesi densissimi, convulsi, che seguivo dall’Italia vedendo i discorsi di Osho videoregistrati. Arrivavano rapidamente ma non in ordine cronologico: ed era un vero magma di scoperte ed emozioni contraddittorie, su cui torreggiava la chiarezza, la compassione, la sincerità, la spietatezza e l’amore del Maestro. Cosa avevamo costruito in quei pochi anni, l’inferno o il paradiso? Per me io so che è stato l’inferno e il paradiso. Ma non perché è stato bello ed è stato brutto. E’ stata un’esperienza incredibile e non comunicabile.
Un esperimento formidabile: noi (e Sheela e il suo gruppo sono stati una parte di noi, anche se inconscia e inconsapevole) abbiamo potuto concretizzare a livello di realtà quanto di più riposto era nascosto nel nostro subconscio: appunto l’inferno e il paradiso. Noi abbiamo potuto vivere, in uno spazio d’amore, i campi di concentramento e l’agape. Noi abbiamo potuto esprimere un sogno collettivo di ventimila persone di nazioni, cultura, lingua, religione diverse e realizzarlo nel corso di quattro anni. Noi abbiamo potuto vivere fino in fondo la degenerazione dell’amore per il Maestro, abbiamo messo in atto le pratiche morte della religione e della burocrazia che seguono la morte del Maestro illuminato. Quante volte Osho ci aveva messo in guardia sui rischi della religione: ideologia e “ismi” eretti in buona fede per cercare di fermare un po’ della luce che il Maestro emana quando è in vita. Osho in silenzio, nei primi tre anni del ranch, aveva lasciato che noi esprimessimo ciò di cui eravamo capaci. E che lezione di realtà vedere lì sotto gli occhi del mondo tutto il bene e tutto il male che era uscito da noi: ogni giorno Osho esponeva fatti e scoperte con l’audacia e l’amore di un grande chirurgo che espone le ferite per farle guarire.
Io sono tutt’uno con ogni cosa:
con ciò che è bello,
con ciò che è brutto,
poiché qualunque cosa sia
là ci sono anch’io.
Non solo della virtù,
ma anche del vizio sono compagno,
e non solo il paradiso mi appartiene,
ma anche l’inferno.
Buddha, Gesù, Lao Tzu
è facile essere il loro erede,
ma Gengis Khan, Tamerlano e Hitler?
Anch’essi sono in me!
No, non metà – io sono l’umanità intera!
Tutto ciò che è dell’uomo è anche mio:
i fiori e le spine,
le tenebre e la luce,
e se mio è il nettare ,
di chi è il veleno?
Nettare e veleno mi appartengono entrambi.
Io chiamo religioso
chiunque faccia questa esperienza,
poiché solo l’angoscia di siffatta esperienza
può rivoluzionare la vita sulla terra.
(Osho, Una tazza di tè – Lettera N. 5)