Giorgio Gaber
Leggo: “Di tutte le parole scritte inutilmente dovrete rispondere il giorno del giudizio”. Siamo subissati, travolti, inondati dalle parole. Tutti parlano di tutto, tutti intervengono su qualsiasi argomento senza alcun pudore. È irresistibile: non importa quel che si dice. L’importante è parlare per imporre la propria presenza, per attirare l’attenzione, per emergere da un doloroso anonimato. E se necessario alzare la voce fino ad urlare per sovrastare altre voci alla disperata ricerca di ascolto.
È il trionfo del luogo comune, della chiacchiera, del pettegolume, della banalità televisiva. E così in modo irrimediabile, muore la conversazione, il desiderio di “convergere”, di contribuire all’approfondimento dei discorsi, di cercare di capire insieme agli altri quello che succede intorno e dentro di noi.
Alla fine ciascuno si costruisce una visione del modo rigida e schematica, perlopiù isterica, che preclude qualsiasi possibilità di reale confronto e annienta il pensiero.
Anche la parola scritta, che per sua natura richiede riflessioni e approfondimenti maggiori, risente di questo stato di cose, I giornali, infatti, per paura di essere schiacciati dallo strapotere della parola televisiva, si adeguano alla logica dei caratteri cubitali e dello “scoop” a tutti i costi. Poco importano l’attendibilità dell’informazione o l’onestà intellettuale dei giornalisti, ciò che conta è catturare con qualsiasi mezzo l’attenzione dei lettori senza mai deludere le aspettative economiche e politiche del proprio editore.
Mi sembra quasi impossibile che da questo desolante contesto possa nascere qualcosa di diverso. Quale spazio può avere un gruppo di persone che senza alzare la voce deisideri confrontare la propria visione delle cose pur partendo da esperienze e presupposti diversi?
Ma attenzione: “Di tutte le partole scritte inutilmente dovrete rispondere il giorno del giudizio”:
Re Nudo N. 1, Ottobre 1996