Viaggio sentimentale tra pena di morte e vita quotidiana
Diario (giorno 1). E’ stata una strana estate, almeno nella mia città, Firenze. Calura a luglio, qualche giorno di pioggia, un classico acquazzone agli inizi di Agosto che ha messo in ginocchio la città, poi caldo torrido e adesso, siamo a fine Agosto, un caldazzo-umido ricorda quello di Bangkok durante la stagione monsonica. Nei miei quotidiani giri su Internet, ho pizzicato la notizia dell’ennesima condanna a morte in Africa. Il tribunale militare di Bukavu, capoluogo del Sud-Kivu, nell’est della Repubblica democratica del Congo, ha condannato alla pena di morte due civili, rei confessi dell’omicidio del giornalista di Radio Okapi, Serge Maheshe, assassinato in strada il 13 giugno scorso nella stessa località con un movente non chiaro. Pena capitale anche per altri due testimoni oculari dell’omicidio e conoscenti di Maheshe, per associazione a delinquere. A morte per associazione! Cribbio. Le mie due micie tutte nere di tre anni, stanno in un punto fresco sulle mattonelle e pisolano dolcemente.
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Scontato, facile all’apparenza, ma senza dubbio scivoloso. Un tema che non si vorrebbe mai affrontare, tanto più scriverne. Parlare contro la pena di morte è infatti sempre un rischio. Non si sa mai dove andare ad aggrapparsi per attirare l’attenzione del buon lettore o per non cadere nella facile retorica della regola buonista, quella che induce a vedere nelle sorti del mondo un ricettacolo di buone pratiche e speranze, facili illusioni e sicure vittorie per sentirsi tutti più sicuri e ovviamente amare il “prossimo tuo come te stesso”. Cazzate. Per rendersene conto basta leggere su un qualsiasi quotidiano la cronaca delle ultime ore di un condannato a morte. Per lo più sono storie che riguardano l’ultimo tratto di vita di un condannato statunitense di cui tutto ci è dato di sapere. Al contrario, dei condannati cinesi o iraniani poco si sa e a malapena se ne trattiene il nome in mente. I pasti, le ultime parole, l’angosciante “miglio verde”, cioè gli ultimi passi del ‘dead man walking’. Il condannato ha mangiato hamburger e patate fritte, ha telefonato alla mamma e ha chiesto scusa ai parenti della vittima. Appariva tranquillo. La grazia del Governatore però non è arrivata. I resoconti si spingono fino a scrutarne l’anima e l’apparato digestivo in un’orgia di effetti visivi tutti legati alla bramosia di “sentire” la sua paura. La triplice puntura o l’avvio delle procedure per la scossa elettrica letale di regola concludono l’orrore.
Racconti dell’altrove per i quali ho sempre provato attrazione e allo stesso tempo nausea. Un modo sostenibile, si potrebbe dire, di affrontare la paura della morte che cova dentro di noi. Cosa c’è di più facile e comodo del seguire le fasi precedenti un’esecuzione capitale per cercare di capire cosa stia frullando nella testa di quel disgraziato? Una volta lessi in un racconto che il condannato a morte potrebbe ritenersi addirittura una persona fortunata, in grado com’è di sapere quando esattamente tirerà l’ultimo respiro. In effetti la burocrazia mortifera delle esecuzioni capitali in America non lascia spazio a ritardi. Le procedure prendono il via ad una ora prefissata dai regolamenti per concludersi con altrettanta puntualità ad un’altra ora. L’appuntamento con la morte non cede il passo a niente. Eppure quante volte effettivamente si è cercato di salvare un condannato? Rendergli cioè la vita una seconda volta dopo che la giustizia terrena ne ha decretato la morte. Un paradosso. La risposta, scontata, è: quasi sempre, quasi mai. Inutile affannarsi per appellarsi al cuore di una giustizia che è ancor peggio che arida: è politica. La politica è una brutta bestia, regge le sorti del mondo e colpisce sempre laddove meno te lo aspetti. La politica utilizza la pena capitale per trattare l’ordine pubblico, annullare movimenti di opposizione, conculcare diritti civili fondamentali, combattere il terrorismo. Mai per ridurre il numero di crimini. La pena di morte, infatti, non è stata mai, e mai sarà, un deterrente psicologico. E’ solo un diabolico e feroce strumento di ‘correzione’ sociale, figlio della giustizia concepita come vendetta. Qualcosa da abolire.
Racconti dell’altrove per i quali ho sempre provato attrazione e allo stesso tempo nausea. Un modo sostenibile, si potrebbe dire, di affrontare la paura della morte che cova dentro di noi. Cosa c’è di più facile e comodo del seguire le fasi precedenti un’esecuzione capitale per cercare di capire cosa stia frullando nella testa di quel disgraziato? Una volta lessi in un racconto che il condannato a morte potrebbe ritenersi addirittura una persona fortunata, in grado com’è di sapere quando esattamente tirerà l’ultimo respiro. In effetti la burocrazia mortifera delle esecuzioni capitali in America non lascia spazio a ritardi. Le procedure prendono il via ad una ora prefissata dai regolamenti per concludersi con altrettanta puntualità ad un’altra ora. L’appuntamento con la morte non cede il passo a niente. Eppure quante volte effettivamente si è cercato di salvare un condannato? Rendergli cioè la vita una seconda volta dopo che la giustizia terrena ne ha decretato la morte. Un paradosso. La risposta, scontata, è: quasi sempre, quasi mai. Inutile affannarsi per appellarsi al cuore di una giustizia che è ancor peggio che arida: è politica. La politica è una brutta bestia, regge le sorti del mondo e colpisce sempre laddove meno te lo aspetti. La politica utilizza la pena capitale per trattare l’ordine pubblico, annullare movimenti di opposizione, conculcare diritti civili fondamentali, combattere il terrorismo. Mai per ridurre il numero di crimini. La pena di morte, infatti, non è stata mai, e mai sarà, un deterrente psicologico. E’ solo un diabolico e feroce strumento di ‘correzione’ sociale, figlio della giustizia concepita come vendetta. Qualcosa da abolire.
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Diario (giorno 2). Non ha ucciso nessuno, ma ha un appuntamento con il boia. Probabilmente questa notte in un penitenziario texano faranno fuori un altro condannato a morte: Kenneth Foster. La più antica democrazia al mondo sta però cominciando a riflettere. Il numero di esecuzioni capitali a stelle e strisce diminuisce di anno in anno. Sarebbe una notizia importante, ma è surclassata dalla notizia che Kenneth Foster, 30 enne afroamericano, potrebbe essere giustiziato in Texas per aver aiutato a fuggire un amico assassino. Ed è proprio il Texas, di cui è stato Governatore l’attuale Presidente Usa George W. Bush, lo Stato americano che sin qui ha eseguito più condanne a morte. Nel 2006 i maggiori responsabili della pena di morte sono stati però gli Stati del sud, con l’83% delle esecuzioni. E va anche detto che, se negli ultimi due anni il numero complessivo delle esecuzioni è diminuito, è invece aumentato il numero complessivo di detenuti nei bracci della morte: 3.344 nel 2006, 90 in più che nel 2005. Di questi detenuti 5 hanno una storia particolare: rinunciando volontariamente a presentare la lunga serie di appelli disponibili si sono presentati spontaneamente al boia per accelerare la propria esecuzione. Cribbio, volontari della morte.
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C’è chi vede la battaglia contro la pena di morte come un modo economico di pulirsi la coscienza. In fondo basta una firmetta su qualche appello, partecipare ad una cartellonata di fronte alle ambasciate dei paesi mantenitori e via, la militanza ha raggiunto l’apice della consapevolezza: questo mondo, porca miseria, ha da cambiare. Poi tutti a casa. Rompete le righe. Semplice. E invece non lo è. Affatto. Pensiamoci: chi non è contro la pena di morte? In Italia, sono pochi quelli che si esprimono per reintrodurla. E di regola lo fanno il giorno dopo un efferato omicidio, soprattutto se la vittima è un bimbo. E’ la rabbia che esplode trovando facili rivoli per chiedere vendetta. La politica, la solita bestia, dà il suo contributo. Poi, per fortuna, tutto finisce. Rimangono le contraddizioni, si diceva un tempo, tra la capacità di governare e quella di reprimere, tra la solidarietà e la lotta alla microcriminalità. Destra-sinistra, Law and Order: il dibattito è aperto. E se devo esprimere una prima sensazione a pelle, beh, il futuro non promette niente di buono, come se una qualche ondata repressiva, di quelle contro tutti e tutto (drogati, lavavetri, girovaghi, artisti di strada, coltivatori di canapa, mignotte e dintorni) fosse dietro l’angolo.
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Diario (giorno 2, sera). Cinque ore prima dell’esecuzione, Rick Perry, Governatore del Texas, ha commutato in ergastolo la pena di morte prevista per Kenneth Foster. Con sei voti contro uno, la Commissione per la libertà e la grazia del Texas (Parole Board) aveva raccomandato a Perry, di risparmiare la vita di Foster, condannato a morte per omicidio pur non avendo mai ucciso. Ecco, una prima concreta conferma che le mobilitazioni internazionali, come quella che si sta svolgendo per la moratoria universale, a volte portano a immediati risultati. Una piccola, ma straordinaria, pagina di civiltà. Rimane solo l’amarezza per l’ergastolo che accompagnerà Foster per il resto dei suoi giorni. Se non ha commesso l’omicidio, mi chiedo, perché allora tenerlo ancora dentro? Se il dubbio ha preso campo all’interno della Commissione, forse è il caso di andare fino in fondo, scarcerando l’ex dead man walking. Come che sia, una vita in più, un cadavere di stato in meno.
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Il linguaggio, la tecnica e l’abitudine
La pena di morte, chiamata anche pena capitale (letteralmente: che comporta la perdita della vita), è l’eliminazione fisica di un individuo ordinata da un tribunale a seguito di una condanna. Morte di stato, violenza legale. I Paesi che ancora la annoverano nel loro ordinamento vengono definiti, con un neologismo che fa sorridere, Paesi mantenitori. La galassia di Stati, movimenti e associazioni che invece lotta per archiviare la pena di morte nel passato della storia umana si divide invece in due categorie: gli abolizionisti, ovvero il movimento “o tutto o niente”, e quanti invece brigano per una moratoria universale, ovvero per sospendere ora le esecuzioni, in vista di una abolizione successiva. Due scuole di pensiero molto distanti e paradossalmente antagoniste. La prima ha una natura più burocratica e attendista, e svolge la sua attività attraverso campagne ad hoc, dossier e interventi settoriali, senza scendere nel terreno politico. La seconda invece si affida alla nonviolenza, dialoga con i Governi mantenitori e trasmette alla pubblica opinione la sua missione attraverso campagne politiche vere e proprie. L’obiettivo è quello di aggirare il fronte del no, dei mantenitori cioè, con la semplice sospensione sine die delle esecuzioni. Abolizionista è Amnesty International, per la moratoria sono invece i Radicali di Marco Pannella e Nessuno Tocchi Caino.
Alcuni esempi di Paesi mantenitori
Messi da parte (ne abbiamo parlato fin troppo) gli Stati Uniti, guardiamo, brevemente, la situazione in altri Paesi. Tre Paesi saltano subito agli occhi per il numero di esecuzioni e perché rappresentano tipologie diverse di forme di Governo: una democrazia orientale, il Giappone, uno stato teocratico, l’Iran, e infine una dittatura che ha aperto al libero mercato senza nessuna concessione sul piano dei diritti civili, la Cina. Un filo li lega tutti e tre: l’Asia, un continente che nei prossimi anni sarà teatro di vicende che riguarderanno l’intera umanità, nel bene e nel male.
Giappone
In Giappone, sono 13 i reati per i quali la legge di Procedura Penale e dal Codice Penale prevede la pena di morte. In pratica, però viene comminata solo per omicidio. Sulle esecuzioni il Governo mantiene il massimo riserbo. I detenuti possono rimanere nel braccio della morte per decenni e di solito non sono informati sulla data della loro esecuzione fino al giorno dell’impiccagione. Poiché vengono avvertiti solo un’ora prima, non possono incontrare i parenti o presentare un appello finale. Familiari e avvocati sono generalmente informati dopo l’esecuzione, alla quale nessuno può assistere. I detenuti, incappucciati e bendati, vengono posizionati sopra una botola che si apre all’improvviso su una fossa profonda quattro metri.
Iran
In Iran la pena di morte è prevista per omicidio, adulterio, stupro, omosessualità, pratiche erotiche tra uomini ripetute per quattro volte, bacio con lussuria in pubblico per quattro volte, reati legati a prostituzione o droga, atti incompatibili con la castità, pornografia, blasfemia, apostasia dall’Islam, estorsione, corruzione, contrabbando d’arte, terrorismo, assunzione di alcool per tre volte, rapina a mano armata e teppismo. I metodi di esecuzione sono impiccagione, fucilazione e lapidazione. Secondo il codice penale, i maschi sopra i 15 anni e le femmine sopra i 9 anni possono essere giustiziati. Numerose sono anche le esecuzioni per reati politici. Nel 2003, due persone sono state giustiziate per aver guidato una protesta studentesca. Nello stesso anno un uomo ha rischiato l’esecuzione per aver affisso nella sua macchina un cartello che diceva “l’era dei governi arroganti è finita”. Non tutte le esecuzioni vengono rese note, e la stima di 300 o 400 esecuzioni all’anno potrebbe essere in difetto.
Cina
Sono moltissimi i reati per cui il codice penale cinese prevede la pena capitale. Secondo alcune ricostruzioni, le fattispecie criminali così sanzionate sarebbero circa una settantina. L’incertezza sui numeri deriva dalla stretta censura vigente in Cina sull’argomento. La riforma del 1995 ha elevato a circa 74 il numero dei reati puniti con la pena di morte. Oltre ad una nutrita serie di reati violenti (che comprendono le lesioni personali, il sequestro di persona, lo schiavismo, la rapina e l’omicidio, anche se colposo), l’elenco comprende fattispecie che riflettono le peculiarità culturali di quel Paese. Nel campo dei reati sociali, ad esempio, sono puniti con la morte il gioco d’azzardo, la bigamia e la diffusione della superstizione. Numerosi reati economici e tributari sono puniti con la fucilazione, o meglio con il tristemente famoso colpo di pistola o di fucile alla nuca: fra questi la frode fiscale, il contrabbando, la falsa fatturazione, i reati contro il patrimonio dello stato, compresi l’impossessamento di beni archeologici, la corruzione, la concussione, la contraffazione, la speculazione e lo spaccio di banconote false. Quanto ai reati a sfondo sessuale, oltre allo stupro soggiacciono alla pena capitale anche il lenocinio, ovvero lo sfruttamento della prostituzione, ma anche la diffusione di materiale pornografico. Sono nell’elenco anche alcuni reati più marcatamente politici come il separatismo e la minaccia alla sicurezza nazionale.
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Diario (giorno 3). Il caldo di questo fine Agosto continua a tormentare Firenze, la città che per prima ha dato un calcio alla pena di morte nel 1786. Prima di allora, i vari governanti di turno torturavano legalmente con i più strani e bizzarri metodi: zufoli, tassilli, ligatura canubis o la vigilia. Il sadismo non aveva limiti e i supplizi conducevano nella maggior parte dei casi alla morte dei torturati. Tra le ultime esecuzioni attuate a Firenze si ricorda quella di cui fu vittima, il 9 agosto del 1714, tal Luca di Bartolomeo Francalanci, impiccato e squartato in Borgo La Croce per aver ucciso una donna.Consigliere provinciale in questa affatto tranquilla Provincia, mi sono occupato sin qui di rifiuti, ambiente e diritti umani. Qualche mese fa, sono riuscito a far approvare una mozione sull’argomento che stiamo trattando in queste confuse righe. Ne trascrivo il dispositivo conclusivo: “Impegna la Giunta Provinciale di Firenze a prendere contatti e a concordare con il Sindaco del Comune di Firenze e con il Presidente della Regione Toscana, una grande azione di sensibilizzazione e di mobilitazione in occasione della sessione all’ONU in cui si discuterà della moratoria, provvedendo all’illuminazione contemporanea di Palazzo Medici Riccardi (sede della Provincia), Palazzo Vecchio (sede del Comune) e Palazzo Panciatichi (sede della regione Toscana) come impegno, forte, davanti a tutto il mondo che la nostra comunità ripudia la pena di morte; di porre in essere tutte le iniziative necessarie per dare continuità e tenere alta l’attenzione e la discussione sul tema dell’abolizione della pena di morte in tutto il mondo; a rafforzare la propria iniziativa politica e culturale ad ogni livello, nelle relazioni internazionali, di cooperazione, di amicizia ma in maniera particolare nei rapporti di gemellaggio, per mettere al bando la pena di morte”. Il mondo non ha certo tremato, ma è pur sempre un piccolo granello di sabbia in un gran mare di cacca.
Odiose cifre
Sono state almeno 5.628 le esecuzioni capitali compiute nel 2006 in 27 Paesi del mondo. 134 in più rispetto al 2005, 98 in più rispetto al 2004. Il triste primato è detenuto dalla Cina con almeno 5000 esecuzioni, seguita da Iran ( 215 esecuzioni), Pakistan (82), Iraq e Sudan (65) e Stati Uniti (53). Dati, questi, contenuti nel “Rapporto 2007 sulla Pena di morte nel mondo” redatto da Nessuno tocchi Caino, l’associazione che da 14 anni opera per abolire la pena capitale attraverso una moratoria.
I Paesi che hanno introdotto una moratoria sono 4 ed i Paesi abolizionisti di fatto, quelli cioè che non eseguono condanne a morte da oltre 10 anni, sono 39. I Paesi mantenitori della pena capitale sono 51, 3 in meno rispetto al 2005 e 9 in meno rispetto al 2004. Nel rapporto viene evidenziato come tra i Paesi mantenitori, 40 sono dittature, regimi autoritari e illiberali, che con 5.564 esecuzioni hanno contribuito per il 98,8% al totale delle pene capitali comminate nel 2006 in tutto il mondo. E va detto che, verosimilmente, questa cifra potrebbe essere più alta dato che mancano statistiche e dati ufficiali (in Cina, ad esempio, secondo notizie ufficiose fornite da accademici e parlamentari le esecuzioni sarebbero almeno 8000 l’anno). Undici dei Paesi mantenitori sono invece democrazie liberali, responsabili dell’1,2% di tutte le esecuzioni.
I Paesi che hanno introdotto una moratoria sono 4 ed i Paesi abolizionisti di fatto, quelli cioè che non eseguono condanne a morte da oltre 10 anni, sono 39. I Paesi mantenitori della pena capitale sono 51, 3 in meno rispetto al 2005 e 9 in meno rispetto al 2004. Nel rapporto viene evidenziato come tra i Paesi mantenitori, 40 sono dittature, regimi autoritari e illiberali, che con 5.564 esecuzioni hanno contribuito per il 98,8% al totale delle pene capitali comminate nel 2006 in tutto il mondo. E va detto che, verosimilmente, questa cifra potrebbe essere più alta dato che mancano statistiche e dati ufficiali (in Cina, ad esempio, secondo notizie ufficiose fornite da accademici e parlamentari le esecuzioni sarebbero almeno 8000 l’anno). Undici dei Paesi mantenitori sono invece democrazie liberali, responsabili dell’1,2% di tutte le esecuzioni.
La Sharia
Il rapporto di Nessuno tocchi Caino dedica diverse pagine alla pena di morte comminata in base alla Sharia in alcuni Paesi musulmani. Nel 2006, almeno 541 esecuzioni, contro le 302 del 2005, sono state effettuate in 16 Paesi a maggioranza musulmana.
Ma se, nella maggior parte dei casi, le pene sono state ordinate da tribunali islamici in base a una stretta applicazione della Sharia, il problema, spiega il rapporto, non è il Corano. Non tutti i Paesi islamici, infatti, praticano la pena di morte o pongono il Corano alla base del proprio codice penale, civile o, addirittura, della propria Carta fondamentale. Il problema nasce dalla traduzione letterale di quel testo millenario in norme penali operata da regimi fondamentalisti, dittatoriali e autoritari al fine di impedire qualsiasi processo democratico. Dei 49 paesi a maggioranza musulmana nel mondo, 21 possono essere considerati a vario titolo abolizionisti, mentre solo 16 dei restanti 28 hanno praticato la pena di morte nel 2006.
Ma se, nella maggior parte dei casi, le pene sono state ordinate da tribunali islamici in base a una stretta applicazione della Sharia, il problema, spiega il rapporto, non è il Corano. Non tutti i Paesi islamici, infatti, praticano la pena di morte o pongono il Corano alla base del proprio codice penale, civile o, addirittura, della propria Carta fondamentale. Il problema nasce dalla traduzione letterale di quel testo millenario in norme penali operata da regimi fondamentalisti, dittatoriali e autoritari al fine di impedire qualsiasi processo democratico. Dei 49 paesi a maggioranza musulmana nel mondo, 21 possono essere considerati a vario titolo abolizionisti, mentre solo 16 dei restanti 28 hanno praticato la pena di morte nel 2006.
La guerra al terrorismo
La guerra al terrorismo ha innegabilmente fornito argomenti ai sostenitori della pena capitale. Il Patriot Act, varato negli Stati Uniti dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e scaduto il 31 dicembre 2005 prevedeva una diminuzione delle garanzie di appello per i condannati a morte. Tra il 2006 ed il 2007 nuove leggi che prevedono la pena di morte per il reato di terrorismo sono state approvate in Malesia e in Bahrein, e una simile legge è in discussione in Bangladesh. In Iraq quasi tutte le 65 esecuzioni compiute nel 2006 sono state comminate per il reato di terrorismo. Ed in nome sempre della lotta al terrorismo, la Cina ha condannato a morte nell’ottobre del 2005 Ismail Semed, giustiziato poi nel febbraio 2007, ufficialmente perché reo di tentato separatismo. Semed era un attivista politico per i diritti umani degli Uiguri. E ancora, denuncia il rapporto, la guerra al terrorismo viene usata per giustificare la persecuzione degli appartenenti a movimenti spirituali e religiosi. Terroristi sono considerati ad esempio i seguaci del Falun Gong in Cina insieme ai buddisti ed ai cristiani. Similmente, si procede in Corea del Nord, Vietnam e, in misura minore in altri Paesi.
La battaglia per la moratoria universale
La battaglia dell’Italia per la moratoria universale della pena di morte è iniziata 13 anni fa. Un lungo e articolato percorso, condotto con tenacia dai Radicali e da Nessuno Tocchi Caino. Una battaglia difficile, che nel 1994 fu ad un passo dalla vittoria, quando la risoluzione presentata dall’Italia venne battuta per soli otto voti all’Assemblea Generale dell’ONU. Una sconfitta bruciante, che rafforzò il fronte degli abolizionisti, tanto da indurre l’Unione europea a non ripresentare un’analoga mozione nel 1999. Memore delle passate esperienze, oggi l’esecutivo guidato da Romano Prodi è andato avanti con cautela, partendo dal mandato unanime con il quale la Camera, il 27 luglio 2006, ha impegnato il Governo a presentare la risoluzione all’Assemblea Generale.
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Riportiamo l’appello diffuso dal Partito radicale per sostenere la battaglia per la moratoria. Una battaglia che vedrà il suo culmine alla ripresa autunnale, quando alle Nazioni Unite si riunirà l’Assemblea generale.
Al Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon
Noi, sottoscritti, pensiamo che l’umanità deve andare avanti, e l’abolizione della pena di morte non è solo una necessità dell’individuo, il rafforzamento ulteriore della sua sfera di inviolabilità, ma sempre più una necessità storica e universale, il punto di approdo della nostra epoca, il punto di incontro di civiltà diverse.
“Nessuno tocchi Caino”, è scritto nel Libro, e questo antico imperativo per noi vuol dire che lo Stato non può disporre della vita dei suoi cittadini. Di fronte ad una criminalità che colpisce tutti in maniera intollerabile, sono molti a chiedere di mantenere o di reintrodurre la pena capitale, ma in questo modo il profondo senso di giustizia che li anima è mal riposto. L’abolizione della pena di morte è sempre più un punto di vista anche della comunità internazionale. La Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite, il 20 aprile del 2005, per il nono anno consecutivo, ha stabilito che l’abolizione della pena di morte “contribuisce al rafforzamento della dignità umana e al progresso dei diritti dell’uomo”, ed ha chiesto agli Stati mantenitori di “stabilire una moratoria delle esecuzioni in vista della definitiva abolizione della pena di morte”. I Tribunali istituiti dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per giudicare il genocidio, lo stupro etnico, le fosse comuni ed altri gravi crimini commessi nella ex Jugoslavia e in Ruanda e lo stesso Statuto del Tribunale internazionale permanente per i crimini contro l’umanità, escludono tutti il ricorso alla pena capitale. Mentre essa è prevista, all’interno di alcuni Stati, per reati infinitamente meno gravi.
Noi, sottoscritti, chiediamo alle Nazioni Unite di liberare la Comunità internazionale da questo anacronismo e di istituire una moratoria universale delle esecuzioni, in vista della completa abolizione della pena di morte. Dopo l’abolizione della schiavitù e l’interdizione della tortura, il diritto a non essere uccisi a seguito di una misura giudiziaria può essere un altro comune denominatore, una nuova e irriducibile dimensione dell’essere umano che fa di tutti noi un’unica comunità.
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Diario(giorno 4). Le mie due micie pisolano dolcemente cercando un ipotetico fresco. Il viaggio mortifero è, per fortuna, finito, Kenneth Foster è stato risparmiato e adesso la parola passa alle diplomazie e a tutti noi.
La moratoria è davvero dietro l’angolo. Tra poco riprenderò l’attività istituzionale in Provincia. Troverò il modo per dare il mio piccolo contributo.
Fatelo anche voi, miei quindici o venti, sottoscrivendo l’appello per la moratoria universale delle esecuzioni capitali su www.radicalparty.org
La moratoria è davvero dietro l’angolo. Tra poco riprenderò l’attività istituzionale in Provincia. Troverò il modo per dare il mio piccolo contributo.
Fatelo anche voi, miei quindici o venti, sottoscrivendo l’appello per la moratoria universale delle esecuzioni capitali su www.radicalparty.org