Trent’anni di lavoro sul corpo
Prashantam (J.M.Pereira de Matos) racconta per i lettori di Re Nudo la storia del suo lungo percorso di ricerca, che l’ha portato a girare decine di Paesi e a diventare, a Poona, maestro dell’Osho Divine Healing. Oggi vive in Italia, pur continuando a portare il suo lavoro in tutto il mondo.
Incontro Prashantam nella sede della Scuola O.D.H.A. a poche centinaia di metri da Osho Miasto, a pochi minuti dalla redazione di RE NUDO, ai piedi di una collina vicino a Siena che è carica di un’energia creatrice, che scaturisce dai diversi sprazzi e dove si sperimentava quello che Gurdjieff chiamava Lavoro.
Conosco Prashantam dal 1977 quando a Poona partecipai al ritiro de meditazione KYO: OSHO ZEN come ricordo nel mio libro “Alla ricerca del Dio perduto”. Mi accoglie vestito da contadino, con gli stivali di gomma, appena tornato dalla potatura dei suoi olivi.
Prima che faccia in tempo a formulare la mia prima domanda mi racconta di qualcosa accaduto di recente, che poteva sembrare un “fuori intervista” o comunque fuori tema, invece non credo lo sia. Si tratta di un intervento di Prashantam nei confronti di un suo studente particolare, un medico chirurgo, cardiologo che si è formato con lui, nella Scuola O.D.H.A. come operatore Shiatsu. Prashantam mi legge la testimonianza scritta del medico, in cui racconta la sua storia che si concludeva con la comunicazione che si sarebbe operato l’indomani per togliere delle varici alla gamba destra.
E Prashantam parte da qui: “Un’operazione semplicissima, due piccoli tagli, un pezzetto di vena in mano. Un intervento di anestesia locale, nessun dolore. Tuttavia, una settimana dopo l’intervento Michele si è accorto che le dita dei piedi non avevano riacquisito la totale sensibilità. Visitato da un collega amico, si sentì dire che non c’era nulla, che tutto sembrava a posto, ma l’insensibilità c’era.”
Michele andò alla Scuola per parlare con Prashantam… che racconta: “Io ho semplicemente portato la sua attenzione sulla ferita sfiorandolo con la mia mano, chiedendogli di chiudere gli occhi, respirare, ricordare il momento dell’intervento e questa volta non reprimere le sensazioni, ma lasciarle emergere, esprimendo ogni emozione. Tutto quanto è durato dieci minuti, alla fine si è alzato ed era tornata la sensibilità ai piedi, tutto era tornato normale.
Quello che era successo – racconta Prashantam – è che durante l‘intervento Michele non aveva sentito dolore, ma c’era stata una partecipazione della mente che è sempre conscia, anche quando non ne sei consapevole. E Michele durante l’operazione aveva vissuto una serie di piccoli traumi, sentire il freddo del bisturi, le facce coperte del team che operava, lo scorrere del sangue sulla pelle. Ma queste sensazioni traumatiche non avevano avuto tempo e spazio di espressione, poiché non c’era dolore, tutto era sotto controllo… troppo controllo…
Oggi – dice Prashantam – lavoro all’80% con sessioni individuali, sessioni che riguardano il livello post traumatico. Io oggi tocco la gente sempre di meno.”
Mi torna in mente un episodio che mi riguarda personalmente, era una quindicina di anni fa, quando vivevo a Miasto. Un giorno mi ritrovai a letto, paralizzato da un colpo della strega che mi impediva ogni tipo di movimento. Mi venne a trovare in stanza Prashantam, di passaggio in Italia; allora non c’era ancora la Scuola. Stette vicino a me qualche minuto in silenzio, poi mi disse di mettermi in piedi. Mi alzai, mettendoci cinque, dieci minuti cercando di soffrire il meno possibile… Mi fece mettere in piedi in mezzo alla stanza, poi mi toccò lievemente, forse mi fece qualche piccolo movimento, mi parlò e tocco per una ventina di minuti, il ricordo è vago…
Ad un certo punto mi disse: “Adesso vai a fare una bella passeggiata nel bosco”. Io, come in trance, cominciai a muovermi, mi sentivo indolenzito, ma il dolore non c’era più, mi vestii e andai nel bosco….
Adesso, dopo la storia di Michele, mi era tornato in mente quell’episodio, insieme a due parole che Shoba, la mia compagna, mi aveva detto riguardo l’esperienza di Prashantam con gli sciamani, una parte della sua vita che non conoscevo.
“Sciamani? Sì, ho vissuto nelle Filippine prima di incontrare Osho, ma anche successivamente in Amazzonia e poi anche in Messico. Ho conosciuto due tipi di sciamani. Quelli che vi mettono le mani addosso e un altro tipo, che usano piante psicotropiche. Questi non ti toccano. Ho avuto esperienze di questo tipo anche in Finlandia e in Russia. Ne ho incontrati tanti, di Sciamani, forse una trentina, ma quelli che veramente mi hanno impressionato sono stati tre. Mi ha colpito la loro semplicità. Persone semplici, ordinarie con famiglia, case normali. Lo straordinario emergeva nel momento in cui si esprimeva la loro energia, che anche loro chiamano trabajo, lavoro.
Dopo l’incontro con Osho a Poona nel ’76, ho comunque potuto percepire una qualità della vita anche nella dimensione ordinaria della loro vita, la loro luce, la loro profonda serenità.
Come sei arrivato ad Osho?
Sono arrivato a lui per “caso” dopo la lettura de “Incontri con uomini straordinari” di Gurdjieff, quando ho pensato “Ma com’è che in questi viaggi che durano da oltre tre anni per tutta l’Asia non mi è mai capitato d’incontrare uno di questi uomini straordinari?!”.
Ero arrivato in Giappone dopo un lungo peregrinare, iniziato con la mia fuga dal Portogallo (dove ero nato) al tempo della dittatura di Salazar; poi in Francia, dove mi procurai documenti falsi, e da lì iniziai a girare il mondo, dopo i miei studi universitari a la Sorbonne.
Un giorno mi trovavo in Afganistan, seduto su una testa di quelle meravigliose statue di Buddha a Bamian, piccolo villaggio nell’interland afgano, che più tardi i Talebani distrussero.Quando qualcuno mi gridò: “Sai che c’è la rivoluzione nel tuo paese?”.
Era la rivoluzione dei garofani, che divenne uno dei miti degli anni ’70, ma ormai io ero in viaggio e il viaggio stava diventando la mia vita. Australia, Laos, Cambogia, per poi arrivare in Cina e infine in Giappone, dove sono diventato monaco Zen, dopo aver incontrato il maestro di Kyotaku, il flauto di bamboo giapponese, Koku nishimura . Da lì sono arrivato a Poona. Dove mi sono fermato fino a quando Osho (all’epoca Bhagwan) andò in America. E lo seguii anche io in Oregon.
E com’è che sei partito per Poona?
No, non sono partito per Poona, sono partito per andare a Goa. Era il ’76 ed era molto in voga andare a Goa in inverno. Mi era tuttavia accaduto un episodio particolare… Intanto per la prima volta a Benares (la città sacra hindu Varanasi) avevo incontrato degli arancioni che mi avevano detto qualcosa su un “sex guru”, poi ero andato al Taj mahal, dove mi sono fermato a lungo.
Suonavo il flauto vicino alla tomba del re e della regina… in quei tempi era ancora possibile – siamo negli anni prima dell’assassinio di Indira Gandhi. Passavo ore e ore come in stato di trance, poi una notte ho come “sentito” una voce che mi diceva “Good. Now come home” e questa voce, questa frase l’ho sentita altre volte mentre suonavo in contemplazione, senza dare però particolare ascolto o cercare il significato di quelle parole…
Un giorno ero alla stazione per andare a Goa, mi sono messo a parlare con due arancioni che mi consigliarono di prendere il treno per Goa via Poona, evitando Bombay.
Così arrivai in treno a Poona come tappa per Goa. Arrivai stanco e provato dal viaggio e desideravo solo fare una doccia. Qualcuno mi suggerì di prendere un ricksho (trasporto tradizionale indiano) per l’“Ashram” e lì avrei potuto fare una doccia. Così arrivai all’Ashram, che scoprii essere l’Asharam del sex guru degli arancioni. Arrivai alla porta e chiesi a un’arancione indiano che era di guardia dove potevo fare una doccia… La risposta fu “Are you crazy” questo è un Ashram!… “get out of here” (vattene!)
Così, stavo per risalire sul mio stesso ricksho quando sentii una voce di donna che mi stava chiamando. Mi girai e vidi una veccia amica conosciuta in una tenuta hippy in Giappone molti mesi prima, e mi stava aspettando. Seppi dopo da lei che era successo qualcosa di magico. Lei era vicina a Osho e gli aveva parlato di me, perché mi aveva sognato diverse volte. E Osho le disse “Stai tranquilla, sta arrivando, vai alla porta e vedrai che arriva”.
Così lei si mise a lavorare vicino all’ingresso dell’Ashram per una decina di giorni, lucidando le palline dei mala. Poi mi raccontò… “Quando cominciavo a perdere la speranza di vederti, ti ho visto…”
Così mi ha portato dentro l’Ashram e siamo stati insieme, poi abbiamo litigato e sono uscito da casa sua a notte fonda. Poi, alle prime luci ero ancora lì fuori, e ho visto una coda di persone in fila per andare a fare la meditazione dinamica, che non sapevo ancora che fosse. Non sapevo certo in quel momento che da quel giorno l’avrei poi fatta ininterrottamente per quattro anni e nove mesi… senza più pensare a Goa.Quando andai in Buddha Hall a sentire Osho per la prima volta, fui colpito dalla voce, che riconobbi essere quella che mi aveva accompagnato nelle mie meditazioni al Taj mahal, ma anche di più, mi colpì il fatto che durante il discorso lui parlò a lungo dell’arrivare a casa…
Dopo pochi giorni, quando ricevetti l’iniziazione, insieme al significato del nome mi parlò molto del trovare casa e tornare a casa. Mi chiese cosa facevo nel mondo là fuori. Accennai appena al mio lavoro fatto in Giappone sull’espressione corporea e lui mi disse “bene” adesso fai gruppi per me… Solo l’indomani quando mi sentii chiamare in ufficio dalla sua segretaria, capii che non dovevo partecipare a un gruppo come normalmente Osho suggeriva ad ognuno che arrivava all’Asharam, ma dovevo essere io a condurre un gruppo. All’epoca c’erano pochissimi Workschop, per lo più c’erano campi di meditazione che duravano anche dieci giorni.Io ho pensato: “Voglio fare il suo gruppo, con la meditazione al centro e lo Shiatzu che avevo conosciuto e imparato in Giappone. Così è nato il KYO: OSHO ZEN group… che rimane ancora oggi fedele ai consigli che ho ricevuto da OSHO per questo ritiro di meditazione.
Io ero il primo partecipante al gruppo e facevo anche io la meditazione. Lo facevamo due volte al mese… Durante i feed back di fine gruppo, una volta Osho mi disse di non partecipare. “Rimani lì in presenza e facilita le loro meditazioni, questo è il tuo compito” mi disse Osho.
Dieci giorni al mese ero impegnato nel Kyo e gli altri venti giorni ho iniziato a dare sessioni individuali di Shiatzu. All’epoca ero l’unico e venivano da me tre quattro persone al giorno; dopo alcune settimane c’erano liste d’attesa di due mesi, a quel punto mi chiesero di pensare di dare training per insegnare lo Shiatzu. Così è avvenuta la mia specializzazione nello Shiatzu.
Della Scuola O.D.H.A. (www.scuolaodha.com) che conduci oggi parleremo nel prossimo numero, ma dimmi del percorso che ti ha portato dallo Shiatzu al Divine Healing.
Io per vent’anni ho lavorato con lo Shiatzu e sono arrivato a fare training di tre mesi dove c’era una parte teorica e una pratica. All’inizio dell’’87 ho proposto questo training più lungo e complesso, che avrei voluto chiamare Oriental Healing Arts, ma non si poteva usare la parola Healing, così chiedemmo suggerimenti a Bhagwan, che rispose: “Healing va bene, Oriental non serve… ma: Divine… è il nome giusto”.
Da quel momento Divine Healing è stato il centro della mia vita. Per anni, poi, Osho avrebbe parlato di Healing sempre associato al “Divine”; ci sono tanti di discorsi di Osho sul Divine Healing, che sempre di più assunse la strada di un modo di concepire le guarigioni. E questa è la mia storia di oggi.
Pubblicato nel numero 08 di Renudo