Le terrificanti torture subite dalla donne tibetane
Ci sono orrori e soprusi che vengono compiuti quotidianamente, nella cecità dei mass media. E quando certe violenze vengono compiute dal governo di un paese sistematicamente osannato dagli occidentali solo allo scopo di ottenere la sottoscrizione di importanti rapporti commerciali, il silenzio mediatico diventa un dovere.
Un’oppressione così dura da soffocare anche il sogno di libertà e gli sforzi del popolo tibetano.
Per questo che molti attivisti tibetani, monaci buddisti, persone semplici gridano la loro protesta al mondo con gesti di impressionante disperazione, come ad esempio darsi fuoco.
Poche donne sono consapevoli quanto sono fortunate ad essere donne in Italia.
In molte parti del mondo le donne vivono in vere e proprie condizioni di terrore, viene negato loro il diritto non solo di essere donne, ma di vivere!
In Tibet moltissime vittime innocenti della politica del culto malvagio del PCC che ha basato sul terrore, sulla violenza, sugli abusi e le torture il suo controllo totale nel Paese, sono le donne Tibetane.
La loro unica colpa, secondo la dittatura cinese, è quella di volere un Tibet libero, un Tibet in cui tutti abbiano gli stessi diritti.
Nella città di Lhasa, si trova un carcere costruito da Mao Tze-Tung: la prigione di Drapchi.
Molte donne sono in stato di detenzione solo per aver indossato vesti tibetane, per aver rifiutato l’indottrinamento politico, o per aver manifestato fedeltà al Dalai Lama, molto spesso anche solo per aver cercato semplicemente di essere madri.
Le donne Tibetane vivono rinchiuse nelle prigioni senza sapere se ne usciranno mai. La maggior parte rinchiuse in questo carcere sono monache. Le condizioni in cui si trovano è tra le più terribili ed è difficile da immaginare la cruda ed orrenda verità.
Sono costrette al lavoro forzato per lunghe ore ad orari estenuanti con i piedi nudi sul ghiaccio; vengono rinchiuse nei loro pochi momenti di riposo in celle buie e putride, di un paio di metri quadrati nelle quali non possono stare in piedi, ma piegarsi subendo gravi patologie alla schiena; vengono nutrite poco e male, il più delle volte con cibo avariato.
Gli aguzzini cinesi rivolgono a loro le peggiori invettive. Vengono insultate e la peggiore tra tutte le crudeltà vengono private di essere madri.
Il dolore provocato dalle torture e dalle violenze inflitte dai carcerieri sadici è limitato solo dalla fantasia della loro mente malata.
Le prigioniere vengono violentate più volte, a turno, vengono torturate, e se qualcuna di loro ha la sfortuna di restare incinta vengono immobilizzate e fatte abortire con dei bastoni elettrici senza anestesia, mentre altre vengono sterilizzate da subito, perché la dittatura cinese sta attuando un vero e proprio genocidio del popolo tibetano e controlla le nascite con mezzi rudimentali. Ad altre prigioniere vengono uccisi i figli appena partoriti.
Il destino di una mamma in Tibet è completamente nelle mani del Governo centrale e di quello regionale.
Piegare la loro dignità, la loro cultura: è questo lo scopo del PCC, annullare la loro persona, la loro natura umana, arrivando perfino a proibire le loro preghiere.
Le fanno spogliare davanti a tutti per umiliarle, le fanno assalire dai cani inferociti, le sottopongono a torture con bruciature di ogni sorta ed in ogni parte del corpo, vengono picchiate a sangue, a volte fino alla morte.
Il caso più drammatico è quello di una giovane monaca tibetana Ngawang Sangdrol (v.foto), che è stata arrestata all’età di 13 anni nel 1990 per aver partecipato ad una manifestazione pacifica a favore dell’indipendenza del Tibet, nello stesso carcere è stata condannata più volte, le sue colpe sono quella di aver composto una canzone sulla libertà e per aver gridato “Viva il Tibet libero” mentre stava subendo una punizione corporale.
Ngawang è stata più volte torturata, le sono state amputate due dita ed ha danni permanenti alle mani ed ai reni.
Lo scopo delle torture è quello di seviziare la vittima fino a ridurla in punto di morte, così di metterla di fronte alla scelta tra la morte fisica o quella mentale, l’abbandono della sua volontà, dei suoi valori fondamentali e della sua coscienza. E’ un assassinio della mente.
Le condanne sono state 4 per un totale di 23 anni, ma in realtà, per una serie di calcoli strani dovuti alle leggi cinesi, avrebbe dovuto scontarne solo 21. La particolarità della sua storia ha fatto sì che il suo caso venisse preso come simbolo della repressione non solo del popolo tibetano ma di tutti gli attivisti non violenti oppressi da poteri brutali.
In Italia sono stati organizzati numerosi eventi in suo favore; il gruppo di Amnesty Italia 159 di Roma ha lavorato in maniera permanente sul suo caso per tutta la durata della sua detenzione; inoltre diversi comuni italiani hanno dato a Ngawang Sangdrol la cittadinanza onoraria proprio a riconoscimento della sua scelta di lotta. Tra questi la città di Firenze.
Il 17 ottobre del 2002 Ngawang Sangdrol è stata, abbastanza inaspettatamente, liberata.
Raramente si parla delle straordinarie e speciali Donne Tibetane.
Gianni Taeshin Da Valle, Laogai Research Foundation Italia ONLUS, 25/02/2016