Triangoli: animalità, filosofia, oriente
di Leonardo Caffo e Valentina Sonzogni
Questo articolo lo scriviamo nel segno della libera associazione: per smettere di parlare di dIO e iniziare a parlare delle creature che un dIO non hanno. Per tracciare i contorni di questo strano dIO che ha una d minuscola e un IO maiuscolo vi parleremo, dunque, di un triangolo, di una gompa e di una medusa, anche se non necessariamente in quest’ordine. Sognando in un brodo primordiale fatto di libri letti, animali immaginati e idee di chissà chi, ascendiamo verso la luce spingendo acqua fuori da quello che ci sembra un addome, salendo dalla profondità del mare oscuro verso una luce che ci attrae.
Forse l’abbiamo visto fare in un video di Bill Viola, quando avevamo due gambe e spesso trascorrevamo la domenica pomeriggio nei musei. Forse questa sensazione è quella che si prova quando si muore da buddisti e si va verso il cielo, ascendendo nella luce che piomba sulla terra attraverso il buco di una nuvola, oltre una pompa di benzina anni Cinquanta, in qualche provincia italiana. Ma quella era la natura? O questo ricordo è nato da un quadro di Caravaggio? Difficile dire da dove vengano i ricordi di questi corpi postumi e postumani immersi nel sogno.
Il nostro corpo di medusa, se di corpo si può parlare, ha una forma che potremmo descrivere come triangolare, anche se traslucido e dall’apparente consistenza di un budino, ma sodissimo. E pensare a quanta ginnastica e creme e diete voi umani, per essere sodi come una medusa nata nel brodo primordiale, una dei primi abitanti del mare, animale e vegetale al tempo stesso, e
quasi nessuno prova empatia per lei o per lui?
Eppure alcuni studi hanno provato che un tipo di medusa dal nome Turritopsis nutricula è, per così dire, “immortale” proprio come quello che noi e i nostri fratelli monoteisti identifichiamo come “dio”. In pratica ringiovanisce invece di invecchiare e si rigenera di continuo, diventando a tutti gli effetti, insieme a qualche albero o corallo, il vivente più anziano della terra.
Triangolo come simbolo di dio, 3, il numero perfetto. A scuola si impara il teorema di Pitagora dove si dice che «In ogni triangolo rettangolo il quadrato costruito sull’ipotenusa è sempre equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui cateti», mentre ci chiedevamo in quale occasione avremmo avuto a che fare con un’ipotenusa e con un cateto.
La differenza è tutta qui, nel potere dell’astrazione. Pitagora, riferisce Ovidio, fu anche tra i primi visionari a scagliarsi contro l’uccisione degli animali per il consumo alimentare «Astenetevi, o mortali, dal contaminarvi il corpo con pietanze empie!», gli fa dire il nostro nelle Metamorfosi. Bisogna essere dei visionari per riuscire a immaginare qualcosa che non c’è e vivere secondo le regole di quel mondo ipotetico.
Tornato dall’India, in particolare dal piccolo villaggio di Binsar ai piedi dell’Himalaya dove sempre più spesso si ritirava a scrivere negli ultimi anni, Terzani si fa costruire una gompa nel suo
terreno dell’Orsigna, a pochi passi da Firenze, culla della cultura umanistica e del Rinascimento italiano.
Ai trionfi della ragione e del potere dell’uomo bianco, fiorentino del Quattrocento, Terzani, che pure l’ha inscritta nei geni essendo un “fiorentinaccio”, contrappone la nuova forma mentis che ha abbracciato. Che, attenzione però, non contraddice la sua impostazione per così dire quasi “genetica” di uomo cresciuto a correre tra i corridoi vasariani, ma vi scivola accanto componendo un inaspettato yin e yang. Qui, giace il triangolo. Buddha, oriente, occidente.
Terzani è ancora quello ma anche questo. Tezani usa l’espressione “gompa”, e non senza una certa ironia rispettosa. Gompa è la parola con cui si descrive un luogo sacro del buddismo tibetano che comprende un monastero cinto da fortificazioni con luoghi di preghiera e studio, oltre alle abitazioni dei monaci. Per chi questi luoghi ha visitato è lampante come essi abbiano il potere, straordinario, di rendere un flusso continuo la spiritualità e la vita, la meditazione e l’attività rendendo di fatto reale quella parola dIO, che qui in Occidente rincorriamo con fatica.
La gompa di Terzani è tutta qui, nell’armonia conquistata dell’ozio meditativo e del lavoro della scrittura e nel momento in cui le due si ribaltano l’una nell’altra (non vi ricorda niente, “avrei
preferenza di no”?).
La scrittura come forma di meditazione è cosa nota, forse ci risulta meno intellegibile il contrario, ovvero come si possa scrivere durante la sospensione indotta dalla meditazione. Eppure si fa: si disegna con il respiro e il nostro punto più profondo scrive parole – perché non può dirle. Tutto è troppo per essere detto, ci sembra una buona formula che riassume le somiglianze tra animalità e buddismo. Anche Terzani racconta la sua lotta, perché proprio di questo si tratta, per imparare l’arte di meditare: l’altalena tra Oriente e Occidente, tra i bambini che hanno imparato a meditare e quelli che hanno imparato a contare:
Allora, maestro, tu che conosci l’Occidente non ti offenderai – gli dissi nell’unico momento in cui, chiamato nel suo bungalow per riferire sui progressi che facevo nella meditazione, ero
autorizzato a rompere il Nobile Silenzio –, non ti offenderai se ti dico che in questi giorni non ho meditato un solo minuto; che, invece di concentrarmi sul naso, la mia mente ha fatto di tutto, dal ridipingere la casa in campagna a un progetto per allargare la biblioteca; invece che pensare a respiro, ho pensato alle cose da scrivere e a quanto è assurdo essere qui; quando tu dici di pensare alla “gola”, penso a stringere la tua che mi forzi a questa tortura; quando dici “gambe”, penso a quelle sotto le gonne di tutte le thailandesi che mi stanno lì accanto, anche alle gambe di quella vecchia e brutta in ultima fila!
La gompa di Terzani ci riporta anche a quanto di più etico vi sia in architettura: la capanna. Tra grattacieli orizzontali e verticali, sembra ormai persa la capanna e tutto quello che ne consegue,
ovvero il senso del rifugio, il piacere del ricovero e quel senso di ospitalità di cui Terzani impara a godere condividendo la semplicità della gompa con uccellini, lucertole e con tutti gli ospiti
inaspettati, quelle individualità a cui si dovrebbe concedere l’“ospitalità assoluta” di Derrida:
Stamattina, un piccolo uccellino grigio con delle penne rosse e nere e una bella crestina di penne nere viene sul mio piede e si mette a tirare via fili di lana, parte, torna e sta sul mio piede
senza paura, senza esitazione e si riempie il becco della bella lana dei miei grossi calzini per il suo nido.
Uno sbattere di palpebre: il sogno è finito e apriamo gli occhi. Tutto intorno a noi solo gabbie da aprire. Siamo di nuovo in India e l’aria di Delhi è satura di smog e rumore, attorno al Forte rosso. Ormai abbiamo imparato ad attraversare la strada e buttiamo i nostri corpi impavidi tra auto, biciclette, mucche e autobus strapieni mentre la mente ci osserva da più in alto, mentre risolve una complessa partita a scacchi per la vita. Siamo ora nell’ospedale degli uccelli dentro il Tempio giainista, i piedi bagnati nell’acqua che scende giù dalle scale. È mattino, l’ora delle pulizie. Mentre il tempio con calma si predispone per la giornata, saliamo una stretta scala che conduce in un vero e proprio ospedale per uccelli che vengono soccorsi e ospitati con la speranza di essere rimessi in libertà.
Strana prospettiva quella del Giainismo, basata sull’ahimsa la pratica della non violenza, questa religione minoritaria si spende per preservare la vita di tutte le creature, anche degli esseri più piccoli, delle formiche e dei vermi che strisciano a terra. È per questo che i giainisti girano con una scopetta e un pezzetto di carta che gli copre bocca e naso: neanche per sbaglio vogliono causare la morte di un essere vivente. Il Giainismo predica un’ovvietà che nel nostro mondo però si è completamente persa di vista: ogni essere vivente vuole vivere e non morire, né soffrire. Ma il Giainismo dice anche altre cose la somma delle quali potrebbe essere: vivi come le altre creature e nel rispetto di esse. C’è una storia molto bella che ci racconta un monaco al quale chiediamo lumi circa la dottrina del Giainismo.
Uno dei Tirthankara, i 24 profeti che si sono succeduti nei cicli storici per rivelare il Giainismo all’umanità di nome Parshwanath, racconta la storia del suo matrimonio. Arrivato al palazzo della sposa con la sua corte, vide un recinto con degli animali ammassati in attesa di essere sacrificati per il suo matrimonio. Sconvolto dalle grida degli animali, chiese perché quelle creature fossero così tenute e gli venne risposto che erano destinate al banchetto della festa nuziale. Il principe si rivolse allora al futuro suocero affinché liberasse gli animali ma questi non sembrò recepire il messaggio e gli rispose che non poteva esserci una festa senza la carne. Il principe allora esclamò:
“Gli animali hanno l’anima, la coscienza e sono nostri fratelli e nostri antenati! Loro vogliono vivere come noi, hanno sentimenti ed emozioni. Provano amore e passione e hanno paura della morte come noi. Il loro diritto alla vita è come il nostro. Io non posso sposarmi, amare e divertirmi se gli animali sono schiavizzati e uccisi.”
Senza pensarci due volte, il principe, ora quasi profeta, cancellò il matrimonio abbandonando tutta la sua vita come la aveva vissuta sino a quell’istante per andare a predicare alle masse dalla coscienza intorpidita il rispetto per tutte le forme di vita. Ma quanti sarebbero disposti far a questo? Quanti sarebbero disposti a smettere di sognare che il mondo sia quello che vediamo per andare oltre la realtà, dentro le pieghe della storia? Suona la sveglia e quell’oggi, per noi, è il primo giorno di una nuova era.
Questo testo fa parte di un più ampio lavoro sulla filosofia di Tiziano Terzani che gli autori stanno svolgendo e che culminerà in un libro l’anno prossimo.