Cinema e Teatro Tibetano
di Aurin Proietti
A partire dal 1989 la complessa situazione del Tibet e la sua cultura inizia finalmente ad essere conosciuta meglio in tutto il mondo. Prima di allora poche erano le informazioni che trapelavano attraverso fonti indipendenti e rivoluzionarie.
Oggi, il Tibet possiede un ruolo non affatto indifferente nel cinema e nel teatro internazionale. Di fatto è molto interessante osservare come negli anni si conoscano sempre più cose del Tibet e come l’affascinante cultura di questo paese percorra il nostro immaginario collettivo nel cinema e nel teatro.
A livello cinematografico troviamo tantissime realtà che hanno segnato una notevole importanza nella divulgazione della cultura del popolo tibetano. Vi sono innanzitutto innumerevoli festival cinematografici ed iniziative dedicate esclusivamente al Tibet ai fini di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla cultura e sulle problematiche sempre più complicate di questa terra (Tibet Film Festival a Trento, London Film Festival, Toronto Film Festival ecc.).
Trovo che l’utilizzo dello strumento “cinema” abbia influito tantissimo nel porre luce su questa popolazione che a mio parere è una delle più interessanti realtà di questo pianeta. Il cinema propriamente tibetano infatti si concentra fondamentalmente nel racconto delle storie di questa terra, e la cosa che trovo davvero appassionante in ciò è che tutte le storie raccontate all’interno di questa tipologia di cinema sono principalmente legate ai 4 elementi essenziali della natura (terra, acqua, fuoco e aria).
A livello internazionale sono diversi i registi che hanno manifestato e realizzato il desiderio di raccontare la magia di questa terra realizzando dei meravigliosi film. Giusto per citarne alcuni: Martin Scorsese (“Kundun” 1997), Jean Jacques Annaud (“Sette Anni in Tibet” 1997), Khashyar Darvich (“Dalai Lama Renaissance” 2007), Rick Ray (“10 Questions for the Dalai Lama” 2006). Troviamo anche diversi registi italiani che hanno realizzato dei film indimenticabili, primo fra tutti “L’Ultimo Imperatore” di Bernardo Bertolucci (Fig. 1 film del 1987 vincitore di 9 premi Oscar), ma abbiamo anche “Milarepa” (1974) di Liliana Cavani e l’interessante lavoro di Pietro Malegori “Sons of Tibet” (2015) un cortometraggio, che risulta essere il primo lavoro che viene realizzato per raccontare il dramma interiore che ha spinto Lhamo Kyab, un giovane pastore tibetano a diventare il 56esimo a bruciare vivo il 12 ottobre del 2012 nei pressi del monastero di Bora, sacrificando la sua vita per la libertà del suo paese.
Come del resto troviamo anche diversi registi propriamente tibetani per esempio: Tsering Rhitar Sherpa (Nepal) , Kelsang Tsering Khangsar (India), Kelsang Rinchen (India) e più che appassionante e meraviglioso è il lavoro del Lama Tibetano Dzongsar Jamyang Khyentse (Bhutan). Dzongsar Jamyang Khyentse Rinpoche, conosciuto anche come Khyentse Norbu, dopo aver appreso l’arte della regia e del cinema da Bernardo Bertolucci ha diretto diversi film di cui i più conosciuti sono “La Coppa” (1999), “Viaggiatori e Maghi” (2003) e “Vara: una Benedizione” (2013), vincitori di diversi premi a livello internazionale. Trovo che il fatto che un Lama tibetano si sia dedicato alla realizzazione di film sia davvero fantastico, mi piace osservare il rispetto ed il giusto utilizzo che il popolo tibetano ha nei confronti dell’arte cinematografica che non tutti purtroppo sono capaci di utilizzare in modo saggio e costruttivo.
Il Dalai Lama stesso nutre un profondo amore per il cinema (e per tutta l’arte in generale) poiché ha giustamente individuato in esso una forte possibilità di espressione, conoscenza, cambiamento e saggezza oltre che essere anche una forma di piacevole intrattenimento.
Di fatto il cinema per la popolazione tibetana è visto come un potente strumento utilizzato per proteggere il prezioso patrimonio della propria cultura, tradizioni e spiritualità, e penso che ciò sia il modo più saggio ed affascinante per utilizzare quest’arte e lasciare all’umanità un patrimonio molto speciale e di facile accesso a tutti.
Per quanto riguarda il teatro vi è un bacino incommensurabile a cui attingere ma ancora poco conosciuto a causa della complessità della lingua tibetana, l’indispensabile conoscenza anche della lingua inglese, del sanscrito, del cinese e la poca drammaturgia esistente. Ma a partire dal 1991 grazie all’incoraggiamento dello stesso Dalai Lama, è iniziato un lavoro destinato a restituire onore a questa civiltà teatrale nella storia. Vi sono comunque ancora tante lacune e pubblicazioni isolate in uno strano ed ambiguo silenzio, ma il risultato del successo di questo lavoro è stata la creazione di una biblioteca di documenti scritti in diverse lingue e di un fondo di audiovisivi che stanno per confluire in un’istituzione pubblica e quindi saranno a disposizione dei ricercatori che vorranno occuparsene. Ma al momento l’indagine sugli aspetti performativi del teatro tibetano è ancora solo agli inizi: con l’invasione della Cina ed i corrispettivi atti vandalici di smantellamento della cultura tibetana, molte informazioni sono andate perse nonostante la Cina non sia riuscita pienamente nell’impresa di azzerare la cultura e la spiritualità di questo paese, che è tuttora per fortuna viva ed incalzante.
Interessante questo mistero che si cela dietro il teatro tibetano o meglio chiamato A Ce Lha Mo o più semplicemente Lhamo (Fig.2), il quale è caratterizzato a tutti gli effetti da un evento performativo, una manifestazione di poesia orale ed un continuo dialogo con diverse discipline artistiche. Esso è in realtà un teatro vivente, dove i processi e le pratiche ritualistiche risultano essere più importanti dei testi dove si inquadrano temi letterari, religiosi e sociali. La particolarità più vistosa e speciale di questo teatro è la sua somiglianza con il teatro ellenico. Questa somiglianza la si può però solo notare direttamente sul campo, sia nel Tibet occupato, che nelle comunità in esilio e non nelle tournee o nelle compagnie teatrali in occidente.
L’aspetto che reputo più affascinate in assoluto nel teatro Lhamo è il fatto che si tratta di un caso unico di teatro dal nome femminile: A Ce Lha Mo è un’espressione che indica una dea benevola, ideale di grazia e di bellezza e la parola Lhamo significa “fata”: sembra che le prime opere di cui si ha memoria fossero racconti di fate. Molti dei protagonisti del teatro Lhamo sono infatti donne, in quanto esse, secondo la cultura tibetana, riescono ad incarnare appieno lo spirito di quest’arte dispensatrice di vera vita, consapevolezza e comprensione, alla comunità ed agli spettatori.
Il repertorio tradizionale è limitato a pochissimi testi, quasi tutti fissati durante il regno del Dalai Lama. Il nucleo di ogni Lhamo è costituito da canti le cui partiture di base sono poi definite e rifinite secondo i personaggi e la contingenza espressiva. I copioni sono aperti, ogni volta si definiscono contenuti e modi delle parti improvvisate e si adattano alla durata prevista dalla rappresentazione che può variare dalle due o più ore a più giornate (come nell’antica Grecia).
I copioni sono quindi difficilmente attribuibili ad un singolo autore, e vi è un forte rispetto verso l’improvvisazione considerata in quanto possibilità di canalizzazione divina.
I soggetti sono alle volte di origine indiana o tratti da storie accolte nel canone tibetano detto Tangiur. Esistono comunque dei copioni che sono da considerarsi dei veri e propri capolavori e costituiscono una parte fondamentale della letteratura tibetana, come per esempio “Nangsa”, che in quanto storia assomiglia moltissimo a “Casa di Bambola” di Henrik Ibsen (1879).
I costumi, e soprattutto le maschere che indossano gli attori svolgono un ruolo fondamentale in quanto servono per identificare i diversi personaggi. La caratteristica Maschera Blu (Fig.3), che deriva direttamente da un’altra maschera ancora più antica di colore bianco, è uno dei principali simboli del Lhamo.
La rappresentazione di un Lhamo è un evento spettacolare estremamente apprezzato dal popolo ed è visto come celebrazione e rifondazione periodica della comunità. In linea di massima le opere si dividono in tre parti: un’introduzione (cerimonia purificatrice), le dinamiche della storia ed una cerimonia conclusiva. Il Lhamo non è mai diviso in atti ed a legare i vari momenti dell’azione vi è un narratore che riassume quanto si è visto e annuncia ciò che sta per accadere.
Ogni personaggio si esprime con una propria melodia e viene talvolta accompagnato dagli altri. La musica ha una grandissima importanza in quanto guida l’azione scenica mentre si alternano il canto narrativo, la canzone dialogata e la musica strumentale. Una parte molto importante è svolta dal coro che segue il canto di un protagonista: è formato da tutti gli attori che non ricoprono ruoli di primo piano e che rimangono attorno allo spazio scenico per tutta la durata della rappresentazione, di fatto anche qui possiamo riscontrare delle similitudini con il teatro dell’antica Grecia.
Di solito le rappresentazioni si svolgono all’aperto. Al centro della scena si erge una sorta di altare tramite il quale attori e pubblico rendono omaggio a Thonthong Gyalpo, un venerato maestro buddhista considerato il padre del teatro tibetano. Le opere teatrali vengono chiamate “vite” o “biografie”. Spesso anche gli stessi Lama tibetani si cimentano nell’arte del teatro come gioco e meditazione (Fig.4).
Prima dell’invasione cinese la passione per il teatro era molto diffusa in Tibet e si può dire che ogni città e villaggio avesse le sue compagnie teatrali che rappresentavano un gran numero di spettacoli. Il contenuto del Lhamo in quanto creazione artistica e letteraria è sempre un racconto del divenire adulti. Per raggiungere questo obiettivo bisogna affrontare difficili prove, senza garanzia di successo, e la possibile riuscita mostra sempre due soluzioni principali: si può diventare regnanti, ovvero occuparsi delle cose del mondo e conquistare la felicità soprattutto dispensando felicità agli altri, oppure si può scegliere la via della rinuncia e del ritiro, raggiungendo la felicità suprema e immateriale della vacuità.
Le vicende e le prove cui sono sottoposti i giovani protagonisti sono delineate secondo il paradigma dell’iniziazione sciamanica le cui costanti sono un maestro, o guida, le prove estreme (a volte istruite dagli stessi aiutanti magici) e la morte (simbolica e rituale) che si deve superare per rinascere nella vita autentica. I personaggi sono portati ad affrontare ogni sorta di avversità: montagne e tempeste, mostri, briganti e lestofanti di ogni tipo, animali feroci o di basso rango, che sono sempre latori di messaggi simbolici o direttamente sovrannaturali, e non mancano i frutti avvelenati o le deità terrifiche.
Oltre alle similitudini con il teatro ellenico, troviamo anche diversi punti in comune con il teatro indiano, giapponese e cinese, ma l’opera tibetana, che sembra risalire al VII secolo, è di certo la tipologia di teatro che ai giorni nostri ha mantenuto maggiormente uno stretto contatto con l’aspetto sacro, ritualistico, spirituale e magico di quest’arte a cui viene attribuito un grande potere in quanto anche possibilità di comunicazione con il divino sia per gli attori che per gli spettatori.
Il Lhamo inoltre è davvero un ottimo esempio di teatro educativo: il teatro in quanto manifestazione di amore e vita che diventa una sorta di guida spirituale a cui tutta la comunità può attingere e trarre forza ed ispirazione. Penso che una volta che riusciremo ad esplorare maggiormente il mondo del teatro di questo paese, potremmo scoprire una vastità di straordinaria antica conoscenza e saggezza che sicuramente sarebbe di forte impatto trasformativo per l’intera umanità.
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