Riflessioni civili e incivili di un babbuino sull’eutanasia
di César
Premessa per il lettore
Egregio lettore
Ti sottopongo questa strana lettera, scritta da un mio amico, una scimmia babbuino. Non ti deve apparire né strano né improbabile, né inaccettabile alla logica, né farti scuotere la testa con disprezzo. La ragione, che conserva il vizio di discernere il bene dal male, latita di fronte agli eventi importanti della vita. César, il mio amico babbuino, conserva, all’opposto, lo stupore della verità. Un bene prezioso. Egli è mezzo uomo; è meticcio. Deve, infatti, la sua nascita a una donna della Malacca e a un babbuino. Stavano per annegarlo, quando fu salvato da un tizio, un francese, che dalla Cina venne a impiantare un suo commercio nella penisola di Singapore. Fu allevato e ricevette un’educazione consona. Mi lega a lui una profonda amicizia e vi narrerà la storia di un pregiudizio. Legato da mille minuzie incomprensibili. A tutte le loro abitudini, in virtù delle quali si fanno quotidianamente più mali di quanti potrebbero causarne tutti gli abusi che vorrebbero prevenire, gli uomini, infatti, hanno aggiunto i pregiudizi. Come quello che condanna il libero arbitrio e la scelta della fine dei giochi. Gli uomini hanno da sempre mode e usi e modi, maniere e toni, un’aria, una gentilezza, riguardi e doveri. Nulla si può violare di tutto questo senza subire una pena; più queste mode sono futili, più sono indispensabili.
César, originario della Malacca, è una scimmia babbuino della specie grande, porta un abito senza calzoni e ha il pelo bianco e cotonato, alquanto rado. Ha la penna in bocca e una mano sulla fronte, sembra assorto in una meditazione. Alla finestra c’è un pappagallo che lo guarda; ai suoi piedi due gatte che con la zampa, cercano di giocare con quello che gli capita a tiro. Di regola scrive ad altre scimmie, indomiti pongidi, mandrilli, leocefali, macachi, uistiti e cebi, orango tanghi, teste di moro e scimmie dalla testa di castoro. Questa volta scrive per voi, affinché gli uomini evitino di ridurre tutte le anime libere in una triste schiavitù. Così almeno era un tempo: salute, gioia, buon nutrimento, riposo, libertà.
Ecco quello che avevo da dire, egregio lettore, prima di metterti sotto gli occhi la lettera straordinaria che stai per leggere. Ah, dimenticavo, César scrisse già una lettera al mondo degli uomini, ma non portò fortuna al suo editore.
M.
Ps: ringrazio Restif, di cuore, che mi fece conoscere César. Non sarei riuscito a pensare granché altrimenti. Né a dare una mano al mio amico Majid.
* * *
Lettera sull’eutanasia
Voi sapete, cari fratelli, che la vita ha un suo percorso. Si nasce, si trattano le vicende dello stare insieme, e non s’impara a lasciarsi andare. A vivere come si dovrebbe. Avere o essere? La risposta è soffiata nel vento con tale forza che quella domanda appartiene a un’altra era geologica. Siamo senz’ombra di dubbio la società dell’avere, in cui possedere e appropriarsi delle cose, e non solo, è un valore indiscutibile. Morire è così.
Qualche mese fa è morta la madre del mio amico M. che qui ha avuto la bontà di presentarmi con dolcezza e serenità. Gliene sono grato. Con la madre M. non aveva quel che si dice un buon rapporto. Dimenticò per lei il grido dei gabbiani e il flutto profondo del mare. Traversò gli studi della maturità e della gioventù entrando nei gorghi. E quante aquile e quante trombe. Pietra, acciaio e foglie di quercia e zoccoli di cavalli. S’incontrarono di nuovo il giorno di Pasqua.
(M.: Il mio amico César a volte si arrabbia con se stesso per la sua scarsa dimestichezza coi sentimenti umani.)
E quel giorno non vi fu interrogazione in quegli occhi, o nelle mani calme sul suo collo. Polvere e una nuvola in cielo. Quel giorno sua madre morì. I mesi che precedettero l’evento furono mesi di passione. Di malattia. Una violenza invisibile si era impadronita del corpo di sua madre. Un giorno di ottobre, una bella giornata carica di sole come si addice a una storia straordinaria, lei cadde. Si pensa, o almeno così pensano i miei amici macachi, che la caduta porti con sé solo fratture e gonfiamenti. Non è così. Porta anche violenza invisibile e a chi un tempo fu bella come il sole recò rughe e passione, dolore e smarrimento, invisibile danno e vita. La madre di M. era bella, non vi negherò il dettaglio che oltrepasserebbe la vostra capacità di comprensione. Per lui era la più bella. Generosa e degna, capace di amare tanto teneramente da dedicarsi con ogni cura al perfezionamento della sua educazione. M. mai ha avuto pace, se non dopo aver ricevuto parte del suo sapere. E questo accadde solo il giorno di Pasqua.
(M.: César è capace di scriver bene, ma si perde nei dettagli. Sappiate ciò, cari lettori.)
La vita è strana. Si desidera morte, quando è la vita a scegliere cosa fare. Si desidera vita, quando è la morte a far necessità e ritmo. Si cerca di interrompere il flusso vitale, quando dolore e spasmi e pannoloni e fiale si mescolano al ritmo della conoscenza. Nuova conoscenza. Incubi e terrori lacerano i tessuti, letti strani, seggioline ancor più strane. Un orrore che il dovere di amare la vita vorrebbe troncare. Si finisce così, noi babbuini e voi umani. Separati dalla propria indipendenza, dipendenti da mani che s’intrufolano nell’intimità.
Interrompere. Scegliere. I doveri delle madri verso i figli, sono un piacere perché naturali. Ma tutti gli altri doveri, per i quali bisogna continuamente avvilirsi, sottomettersi, fingere, ostentare, travestirsi in mille modi, prevenire, privarsi perfino del necessario sono dei supplizi che i tutti beni della civiltà riescono appena a compensare.
(M.: qui César si fa pensieroso e crede, in buona fede, che in tutte le specie il libero arbitrio di poter scegliere il momento di farla finita e di cedere al dovere di vivere, sia legato a una presenza divina che aiuta e incoraggia e guida. E’ la sua debolezza. Provo invidia.)
Interrompere. Scegliere. In quei giorni terribili che precedettero la morte nel giorno di Pasqua, la madre di M., con la faccia sepolta nel guanciale di un ospedale, priva di ciò che fa amare la vita, compì, senza saperlo, il pellegrinaggio di tutte le emozioni: il nauseante disgusto per l’assurdità della situazione, il dubbio sulla capacità di condurre la propria vita, la diffidenza verso i suoi sentimenti migliori, tutte le provò, una dopo l’altra. Senza saperlo. Chi la guardava e l’amava sapeva di non poter dir menzogne con se stesso. Non c’erano ponti. Solo rantoli. Rantoli assurdi, e paura in chi la amava, non di quella scusabile, davanti a uno sguardo ingenuo, ma della paura della morte, la paura della vigliaccheria di fronte al niente. Aveva M. nella bocca riarsa il vago gusto ripugnante della paura.
La storia è lunga, amici lettori, e fu tragica nel suo divenire, come tante, tantissime che noi e voi cogliamo solo nell’essenzialità del momento. Tutto passa. Tutto arriva. Prima o poi. Si sviluppò nell’arco di due anni, all’interno dei quali tante cose avvennero, la malattia correva così velocemente da non saper come starle dietro. Un malanno di quelli antichi, ma che un tempo non dava noia. Li chiamavano matti e così stavano, stretti in qualche camicia o legati a qualche letto. Il nome di oggi ne decreto il successo e l’approdo sulla sponda delle malattie dell’apparato cognitivo. Demenza, così si chiama. Così si fa sentire. Demenza. E quante sono! Vascolare, carenziale, Alzheimer, Parkinson, Corea di Huntington, malattia di Pick, con o senza sindrome extrapiramidale. Il catalogo è questo.
(M.: César è un romantico, sa bene che oggi questi tipi di malattie, degenerative del sistema cognitivo, si curano e con grande successo per dottori e farmaci ad alto potenziale. Che poi si renda la persona priva di autonomia, è anche questo parte del successo, e della storia. Diceva un dottore: è come restaurare una cattedrale, ripari di qua, ma qualcosa cade di là)
Ed eccolo quindi il pregiudizio. Il giudizio prematuro. Esso non fa parte dell’umana riflessione, ma della nostra, del mondo babbuino. Un pregiudizio, dunque, che deve essere sconfitto. Chi tra noi sceglie di morire in anticipo, per scelta o necessità, per i mille motivi di un’evidente e costante infelicità o indicibile dolore subisce l’onta del preconcetto e dell’opinione contratta, ma strutturata, di chi pensa che sia un debole e in cattiva luce con Dio. I suicidi son sempre bastardi. E come avviene nel mondo degli umani, sono soli e nessuno li aiuta. Una mano amica dovrebbe sapere come fare. Lo Stato dovrebbe sapere come aiutare. Non mi fate sussurrare cari lettori, cosa penso dello Stato. Traggo solo un capitolo, quello che il pregiudizio finisce per levare a tutti quello che le leggi stesse avevano lasciato. E’ a questo proposito, lo confesso, che l’uomo mi sembra così miserabile da meritare la compassione del bradipo o del formichiere. Più l’uomo è ricco, colto, più ha pregiudizi e vincoli che lo assalgono e lo molestano. Mille minuzie incomprensibili. E’ vero che gli uomini cercano di rifarsi violando le leggi fondamentali e soprattutto quelle della natura; e io, giudice disinteressato, credo che non possano fare altrimenti, perché con tutti i disagi della condizione umana, i bisogni fittizi, ma impellenti, che l’abitudine all’abbondanza comporta, non potrebbero vivere, si struggerebbero dal dolore. Il corpo politico così definito, la legge del quale è sacro fondamento, è soltanto un succedaneo del corpo mistico della cristianità temporale. Per voi umani, il tempo corre e il rischio è corto: è che arriviate senza rendervene conto a giustificare di nuovo la pena di morte in una società civile e la sottomissione assoluta del suddito al potere sovrano.
(M.: vedete, cari lettori, César mi vuole bene e vi suggerisce che niente io potevo fare se non assistere, attivo solo nel governare le cure, alla lenta distruzione dei tessuti di mia madre. Forse è vero, forse no. So solo che niente si fa se si è soli. Io, fortunatamente, non lo ero. Questo è il gioco della vita che insegna, pena morire, che leggerezza e ritmo fan parte della morte che è sconfitta. L’ignoranza è certamente un’imperfezione; è pericolosa: ma la scienza ha degli inconvenienti che mi spaventano. Altrimenti si diventa amici dei babbuini. Che è un bel vivere.)
Il dolore ha un odore. Certo, il concetto stesso di progresso va di pari passo con l’evoluzione dell’odore del dolore. Si sente dappertutto. Per le strade e nelle case. Negli ospedali assume caratteristiche precise: farmaci e lenzuola, pasti di servizio nauseabondi mescolati alle gamelle portate da casa. Pappagalli e padelle. Nella percezione sensoriale la follia avanza senza sosta. La madre di M. conobbe nei suoi ultimi mesi tanti ospedali e residenze sanitarie, corsie e letti anonimi. Anche sorelle e amore. La follia disegnava il suo percorso, richiedeva assistenza. Obbligatoria. E’ il crudele sistema della solidarietà sociale. Un tempo si nascondeva il diverso, oggi s’inserisce. Il sentimento della pietà, la compassione per i propri simili che la natura ha dato a tutti gli esseri viventi perché si aiutino tra loro, si sostengano e addolciscano le pene della vita, questo sentimento si dovrebbe fortificare invece di distruggerlo. Il rischio è che sia cancellato, soffocato. Il Barone di Münchausen fuggì infatti fin sulla luna cavalcando una palla di cannone, ma era bugiardo. Astolfo, dopo aver rotto la maledizione contro Senàpo, si recò sulla luna con il carro di Elia per riprendere l’ampolla che conteneva il senno di Orlando, e trovò anche l’ampolla contenente il suo. Si dice di persona strana che sia lunatico.
(M.: César è sempre più assorto. Credo che stia pensando che ogni coscienza è, nel suo principio, desiderio di essere riconosciuta e salutata come tale dalle altre coscienze. Sono gli altri a generarci. Il sommo valore, in fin dei conti, non è solo la conservazione della vita, la coscienza deve elevarsi al disopra di questo istinto per ricevere valore umano. Dev’essere capace di mettere in gioco la propria vita.)
La madre di M., mio carissimo amico, morì dopo diciotto mesi di dolore e incubi. Morì così, come arrivò nel tempo della vita. Con stile e bellezza. La portò via l’insofferenza e la sofferenza, la distruzione lenta e quotidiana del suo fisico un tempo splendente. Eutanasia non fu; la dolce morte non abbracciò la bella signora. E se questa storia ha un suo significato, l’ha nella traccia della volontà, di voler lottare a tutti i costi, giorno dopo giorno, contro l’ineluttabile. Il significato è dietro l’angolo, è ovvio, e solo gli occhi della foresta lo sanno cogliere: occhi che non hanno ancora sonno né vogliono giustificazioni. Una principessa, amica della giustizia, porta sempre con sé il fardello della conoscenza, e nonostante l’età avanzata vince sempre e attenti a lei. E’ pericolosa come le eruzioni del Vesuvio e dell’Etna. E vince sempre. Arrampicandosi sull’albero della scienza del bene e del male da cui l’uomo si alimenta per rimanere immortale.
Addio cari fratelli. Salute, riposo, buon nutrimento, libertà. E aggiungo, ignoranza eterna.
César